In una sua ballata ( https://www.youtube.com/watch?v=QTMzcaSIt2s ), Alberto Amboni canta del nostro terremoto 2016 chiamandolo “Terry”, che per contrazione richiama il senso del terribile, del terrificante, ma al contempo sembra quasi addolcirlo, volendolo forse ammansire, blandire con quel nomignolo a suo modo vezzoso.
In Friuli, per quello che fu uno dei peggiori terremoti che abbiano mai colpito l’Italia in tempi moderni per vastità, per decessi e per danni, le popolazioni locali usarono invece un nome secco e inequivocabile, che suona quasi un’imprecazione: Orcolat, in lingua friulana, l’Orco.
L’Orco colpì il 6 maggio 1976, con una magnitudo 6.5 scala Richter: vi furono 990 morti, 45.000 senzatetto. Gemona, fu il nome simbolo. Una desolazione. Come sempre, anche allora vi fu una condivisione del dolore e scattò la solidarietà concreta, ovunque.
Alcuni di noi giovani esanatogliesi, di diverso orientamento (la sinistra, organizzata e non, insieme all’A.C.R. Azione Cattolica Ragazzi), ci coalizzammo per promuovere una raccolta fondi a sostegno delle popolazioni colpite dal sisma. Il Comune aveva messo a disposizione l’ufficio dei Vigili Urbani che al tempo era al piano terra della ex Caserma, con ingresso dall’altro lato dell’Ufficio Postale (l’attuale ingresso della Biblioteca) affidandoci anche alla supervisione e controllo dell’allora Vigile Urbano, lo “sceriffo” Dino Pedica.
Fu quindi quanto mai breve il tragitto che, in uno di quei giorni di raccolta fondi, percorse una anziana donna vestita di nero; uscendo proprio dalla Posta, il tempo di girare l’edificio e ci si presentò con un involto in mano. Lo svolse estraendo un mucchietto di banconote ancora avvolte nella distinta postale.
Aveva appena ritirato la pensione. Non ricordo con precisione quanto fosse (sarà scritto da qualche parte negli atti di archivio del Comune a cui consegnammo la raccolta fondi) ricordo solo che era l’intero importo che aveva appena riscosso, compresa la reversibilità del marito, che lei aveva intenzione di lasciare. Provammo a spiegarle, meravigliati e un po’ imbarazzati, che forse era troppo, che bastava anche una somma inferiore, simbolica, che bastava il pensiero, che lei non doveva sacrificare le sue necessità, e altri argomenti del genere per indurla a ponderare bene la cosa.
La risposta all’incirca fu così (la ricordo assai bene per averla raccontata a voce molte volte): “Tisti a me no’ mme ricchisce, poeretta ero e poeretta ‘rmango, no’ mme serve pe’ magnà, so’ anghe sdentaa [e effettivamente solo pochi denti qua e la’ facevano capolino all’interno del suo sorriso], lo pocu che pozzo magnà cellò agghjià tuttu, ‘mmece quilli poritti mia, ma l’éte visti?, ‘ngià più mangu l’occhi pe’ piagne. Pijeteli tutti che, ve lo dico io, a issi je serve.”.
Non ammise repliche. Lasciò lì il tutto e se ne andò.La raccolta fondi si arricchì di tutta la sua intera mensilità.
Si chiamava Giuseppa Calisti all’epoca aveva 77 anni e vestiva di nero ancora dopo 13 anni di vedovanza, la seconda della sua vita. Non aveva figli. E’ morta nel 1978.
Ripenso a lei ogni volta che si parla di benefattori, soprattutto quando la beneficenza è praticata da soggetti facoltosi e preferibilmente anche famosi, le cui donazioni suscitano scalpore, perché a volte si tratta anche di somme consistenti che quasi intimoriscono, pur rappresentando comunque una parte presumibilmente assai limitata delle loro disponibilità. Ogni volta che sento decantare pubblicamente con particolare enfasi la liberalità di questi personaggi che aprono i loro portafogli (gesti comunque sempre ben accetti e magari anche di incentivo alla emulazione…) mi torna in mente questa storia e mi sorprendo a fare calcoli, magari un po’ azzardati (perché non sono l’Agenzia delle Entrate…), ma forse non del tutto avventati. Mi viene sempre di far la proporzione tra le loro immaginabili risorse e quanto di queste mettono a disposizione in beneficenza, rapportandolo a quanto fece, tanti anni fa e senza alcun clamore, una anziana donna vestita di nero. Giuseppa Calisti, oscura benefattrice.
Condivido anch’io!
La beneficenza vera è quella della Signora Giuseppa: spontanea, in forma anonima, senza secondi fini.
Il suo gesto l’ha fatta ricordare a tutta la comunità dopo oltre quaranta anni.