Sant’Angelo infra Ostia, di cui qui vedete una foto della residua Chiesa che sorgeva dove ora sorge la casa colonica (la chiesa originaria dell’Abbazia sarà stata senza dubbio ben altra cosa), iniziò la sua decadenza già verso la prima metà del ‘500.
Cinque secoli di progressivo abbandono si sono accaniti sui resti di quella importante e gloriosa Abbazia. Questo spiega perché oggi non ci resta nulla, nessuna traccia evidente, nessuna testimonianza, né architettonica, né artistica, se non il Crocefisso che ora è custodito in San Martino.
I documenti che attestano la presenza dell’Abbazia nell’arco dei circa cinque secoli della sua esistenza, non sono molti e sono stati ormai accuratamente analizzati da vari studiosi in diverse epoche. Il compendio di questi studi e l’approccio storico più sistematico è del Mazzalupi [1]; di recente anche un articolo del nostro concittadino Mons. Giuseppe Tozzi, su ‘La nostra comunità’ [2] ha ripercorso in sintesi le coordinate storiche e documentali dell’Abbazia integrando con alcune osservazioni dello storico Federico Uncini (non viene indicata la bibliografia di riferimento, ma pensiamo si tratti della scheda inserita nel sito web ‘fabrianostorica.it’): sostanzialmente nulla che non si sapesse già. Così sarà finché non si aggiungeranno altri documenti inediti e al momento sconosciuti. Per cui, chi fosse interessato a conoscere questa storia sa a quale bibliografia fare riferimento.
Un commendatario… assai commendevole
Solo un elemento a me piace aggiungere, che viene ignorato da queste preziose fonti e fin qui, mi pare, anche da altre; un elemento certamente secondario, quasi una spigolatura, se non fosse che coinvolge un personaggio estremamente illustre del panorama letterario e culturale del ‘500 italiano e che a me lusinga accostare, anche fosse solo incidentalmente, al nome e alla storia di Sant’Angelo e quindi del nostro paese.
Il Commendator Annibal Caro
Non si può qui raccontare per esteso chi fosse, Annibal Caro (Civitanova Marche 1507 – Frascati 1566), lo ricordiamo solo come il mirabile traduttore e volgarizzatore dell’Eneide, che con la sua versione in endecasillabi sciolti seppe dare un suono ‘moderno’ ai versi di Virgilio, resistendo ai secoli e dominando sui banchi di scuola fino a qualche decennio fa. Fu inoltre drammaturgo, poeta, umanista immerso appieno nel suo tempo.
Accadde che a un certo punto della sua vita, il Cardinale Alessandro Farnese (1520-1589), che in quanto nipote del Papa Paolo III si trovò ad indossare la porpora a soli 14 anni, tra incombenze e onori, alle innumerevoli cariche assommò anche quella di Commendatario della Abbazia di Sant’Angelo infra Ostia.
Il Commendatario, era colui a cui veniva concesso, secondo il principio della ‘commenda‘ ovvero dell’affidamento, della raccomandazione, il beneficio vacante su di un convento, un’abbazia, una chiesa; prevalentemente si trattava di un alto prelato, Cardinale o Vescovo, ma non solo. La commenda consisteva nell’esercizio della giurisdizione sul bene affidato, ma nel corso di qualche secolo s’era ingigantita fino a comprendere anche il godimento dei frutti prodotti. Poiché spesso la ‘vacanza’ della sede affidata si dilatava nel tempo (alcune commende erano anche perpetue), e alcune Abbazie producevano rendite rilevanti, si può ben comprendere come, in molti casi, questo tipo di istituto, i cui benefìci col tempo fu permesso di estendere in sub-concessione anche ad altri, risultasse particolarmente appetibile e merce di scambio nel complesso intrigo del potere economico e politico. Il fenomeno cominciò a declinare dopo il Concilio di Trento, che terminò i suoi lavori nel 1563 e, tra le altre cose, provvide a limitare l’istituto regolamentandone gli aspetti più deteriori.
Nel 1546, un anno prima che ne decretasse la soppressione con la devoluzione di tutti i beni alla Chiesa di San Martino, nel frattempo eletta a “Collegiata”, il Cardinale Farnese concesse un beneficio al letterato marchigiano, forse per ricompensarlo della particolare attenzione nei confronti della sua famiglia e magari per blandirlo in vista di futuri possibili incarichi presso la sua stessa corte: gli concesse proprio un “beneficio” sulla Abbazia di Sant’Angelo infra ostia nella antica terra di Santa Natoglia.
Il Caro in quel momento prestava infatti i suoi servigi intellettuali al padre del Cardinale, a quel Pier Luigi Farnese la cui condotta politica e morale tanto preoccupava suo padre, il Papa Paolo III, tanto da costringere il Pontefice a rampognarlo, è il caso di dire ‘paternalisticamente’, per interposta persona, dandone incarico a un Cardinale amico.
Siamo ” a li 3 d’Agosto 1547 “, Annibal Caro, da Piacenza, dalla corte di Farnese padre, scrive al Cardinal Farnese figlio una lettera da cui apprendiamo che dall’anno precedente aveva beneficiato di una “pensione”, una rendita a valere sulle attività della “Abbatia di S.Natoglia“, proprio per gentile concessione del Cardinale stesso. [3]
“In tutti i miei giorni non hebbi mai la maggiore allegrezza di quella, ch’io sentii l’anno passato, quando da V.S. Reverendissima mi fu donata la pensione sopra l’Abbatia di S.Natoglia, perché con essa io potessi conseguire il benefitio che ho di poi conseguito in casa mia.”
Certo non una concessione tale da cambiargli la vita, se è vero, come pare, che la decadenza che già si avvertiva nell’Abbazia, avrà comportato anche rendite ridotte, ma ovviamente venne accettata.
“Et me ne rallegrai così grandemente non tanto per l’utile, che non è però molto, quanto perché mi parve che quella magnificenza verso di me havesse dal canto di lei tutte le sue parti, poi ch’ella di suo proprio moto, senza essere pur ricerca, non che importunata da me, con si generoso modo, si fece incontro a la povertà, et a la modestia mia.”
Ma la “malignità” della sua “cattiva fortuna”, gli sembrava dovesse soccombere alla magnanimità del Cardinale. Infatti l’atto di liberalità con cui il Cardinale lo aveva omaggiato gli aveva creato problemi nella rete dei suoi rapporti amicali; la pensione a lui attribuita infatti apparteneva in precedenza a Antonio Ottoni di Matelica, di sua conoscenza e frequentazione come risulta da altre lettere del periodo, il quale pare lo ebbe a considerare un sopruso consumato ai suoi danni.
“In tanto il Signor Anton da Matelica pensionario, è stato privato de l’Abbatia, et esso hà perduto la pensione, per questo mi domanda hora, che gli retroceda il benefitio. Io so bene, che non sono tenuto a farlo non volendo; tutta volta non debbo anco volere, che, venendoli questo danno per far commodo a me, egli patisca per conto mio.”.
Pertanto se il Cardinale non avesse provveduto accontentando l’Ottoni, lui avrebbe rinunciato al beneficio.
“Et se V.S. Reverendissima non interpone l’autorità sua a fare, che le cose fatte sieno rate, et ferme, ò che non usa la medesima liberalità, perché gli si dia nuova ricompensa, io sarò forzato a restituirgliene.”
Ipotesi che, mette subito in chiaro, lo avrebbe messo a terra economicamente, perché aveva reinvestito parte del beneficio in lavori nell’Abbazia, e anche moralmente perché gli avrebbe fatto perder la faccia e l’onore tra i suoi conterranei marchigiani che l’avrebbero portato per bocca per essersi vantato del… nulla.
“Onde che la sua grazia mi tornerà primamente dannosa, havendo speso a fabricare, et a ravviarla pure assai; di poi mi porterà un dishonor grandissimo tra Marchiani, i quali metteranno in favola, ch’io mi sia tanto preggiato d’un presente, che V.S. Reverendissima m’ha fatto di non niente.”.
Veniamo quindi a sapere che aveva fatto fare degli interventi per sistemare l’Abbazia di Sant’Angelo; possiamo (e vogliamo) presumere che, a motivo di ciò, in un periodo in cui è segnalata la sua presenza nel territorio della Marca, possa aver avuto occasione di visitare anche la nostra terra.
La lettera termina con una richiesta che va ancora oltre; contando forse nella soddisfazione delle necessità di Antonio Ottoni, si supplica infine il Cardinale “che si degni di volere, che quello, che hà voluto una volta, sia stabile per sempre, accio che questa mia fortunaccia, non ardisca contra di me, ancora in dispregio de la virtù sua.“. Il ‘beneficio perpetuo‘ insomma.
Tutto ciò avveniva in una cornice che inquadra bene il contesto dell’epoca: pochi mesi dopo, una congiura di nobili a Piacenza (10 settembre 1547) avrebbe posto fine alla vita di Pier Luigi Farnese; Annibal Caro se ne fuggì alla volta di Roma per approdare, appunto, al servizio diretto di Alessandro Farnese; a Matelica, proprio nello stesso periodo, l’Antonio Ottoni di cui sopra era intento a una faida familiare senza esclusione di colpi contro suo cugino Antonio Maria Ottoni per il governo della città, tanto da indurre il popolo matelicese a sollevarsi contro lo strapotere dell’intera famiglia degli Ottoni e a ribaltare, almeno temporaneamente, la situazione della gestione del potere comunitario.[4]
Forse anche per il repentino mutare delle condizioni, questo appannaggio sull’Abbazia da parte del Caro durò probabilmente appena un anno, finché appunto i beni di Sant’Angelo non passarono tutti sotto la Collegiata di San Martino.
Il passaggio non fu comunque cosa semplice se nel marzo del 1548, il Cardinal Farnese scrive al Cardinal Durante, Legato Pontificio di Camerino (in realtà chi scrive per suo conto è proprio Annibal Caro, ormai suo servitore), , per “la causa dell’Abbazia di Santa Natoglia” che ha generato “discussioni e fastidj” allo stesso Pontefice, il quale aveva poi stabilito una sorta di transazione che cercava di mettere d’accordo tutti gli attori della contesa che s’era instaurata: da un lato Il Vescovo e il Capitolo di Camerino, dall’altro la Comunità di Santa Natoglia con la Collegiata di San Martino “perché questo modo è parso a Sua Beatitudine che provvegga alla satisfatione dell’una e dell’altra Comunità” facendo al contempo salve “l’indennità de’ miei servitori” (leggi lo stesso Annibal Caro) e sanare anche la posizione relativa “ai frutti sequestrati al Signor Antonio [Ottoni ndr], affinché se ne possa satisfare alle pensioni decorse; che questo ancora è mente di Sua Santità, la quale desidero che non sia più fastidita di questa benedetta causa.” Per chiudere definitivamente l’argomento, partì da Roma “una cavalcata a posta”. [5]
Resta che, almeno per un anno o poco più, possiamo (vogliamo) sentirci lusingati dal fatto che la nostra terra abbia incrociato la vita di Annibal Caro, e abbia contribuito, con una quota delle rendite di Sant’Angelo infra ostia, al sostentamento, e quindi alla vita, e quindi, perché no, alle opere di questo illustre letterato.
Pensateci quando iniziate a declamare i primi versi dell’Eneide ‘del Caro‘:
“Quell’io che già tra selve e tra pastori
Di Titiro sonai l’umil sampogna,
E che, de’ boschi uscendo, a mano a mano
Fei pingui e colti i campi, e pieni i voti
D’ogn’ingordo colono, opra che forse
Agli agricoli è grata…..”
E se il poema virgiliano non rientra tra le vostre abituali occupazioni, tenete a mente questa antica straordinaria frequentazione del nostro territorio (almeno fino a quando qualcuno non ne fisserà la memoria su una lapide, un cippo, un rudere che ricordi anche l’antica magnificenza di quei luoghi) quando, nel percorrere quella splendida valle, infra quei fiumi, magari fuori dalla vista di ciò che resta oggi, e che di certo non ispira…, vi sarà dolce abbandonarvi all’eco dei versi del suo ‘Commendator’ Annibal Caro che in quei pressi, chi vuole, potrà ancora provare a trasentire:
“Muse datemi voi, datemi ‘l canto.
O sempre amati fiumi, ò dolci colli,
Che si verdi pasture, et si chiar’acque
Desti al mio già aventuroso armento.
Datemi Muse voi, datemi ‘l canto.” [6]
[1] C. Mazzalupi, La terra di Santa Anatolia, Camerino, Mierma, 1996 (pp. 106-117)
[2] G. Tozzi, Esanatoglia. S.Anatolia e l’Abbazia di S.Angelo infra hostia, La Nostra Comunità Anno LIX, n. 3 2020, p. 5
[3] De le lettere familiari del Commendatore Annibal Caro, vol. I, Venezia, Aldo Manuzio, 1574, pp. 249-251
[4]. L. Barbini, La Signoria degli Ottoni, Matelica, 1988, pp. 69-74
[5] Delle lettere del Commendatore Annibal Caro scritte a nome del Cardinale Alessandro Farnese, 1807, vol. I, pp. 23-24 (vi fu anche un sollecito successivo, 16 maggio 1548, ma approfondire esula per il momento dal nostro scopo).
[6] Annibal Caro, Rime, Venezia, Aldo Manuzio, 1569