Seppur apparentemente meno segnate dalla mano dell’uomo, anche le nostre montagne, alla pari del restante territorio, custodiscono luoghi, segreti, incanti, costruiti nell’arco di secoli, che rischiamo di perdere. Ce li lasciamo sfuggire perché il tempo sfuma i contorni delle cose, perché il presente spesso ci sovrasta e ci illude, perché confondiamo storia e nostalgia assegnando a quest’ultima o un sentimentalismo a volte vacuo o una valenza negativa e siamo avidi dell’oggi con una bramosia che se, con ponderazione, la riservassimo al domani (nel rispetto e nella conoscenza di ciò che è stato ieri) potremmo coltivare davvero speranza. Per questo ed altro ancora, nonché per l’ignoranza o ignavia che sia, perdiamo pezzi di noi, a volte enormi, a volte magari anche semplici reliquie. E’ il caso, come esempio, di una chiesetta che si trova a Fonte la Valle (o Fonte della Valle com’era nei Catasti più antichi) e su cui pare essere calata la condanna alla cancellazione.
Da tempo ormai è crollata la copertura e le murature perimetrali, di conseguenza, si stanno via via sbrecciando. Un intervento è ancora possibile e, se attuato con la necessaria urgenza, potrebbe ancora metterla in salvo prima che diventi del tutto irrecuperabile.
Ho di recente segnalato al nostro Sindaco la necessità di fare qualcosa (visto che la proprietà è del Demanio Regionale amministrato dalla nostra Comunità Montana). Sembra che il messaggio sia stato recepito e che la possibilità di un recupero sia stata inserita in un qualche programma di intervento “a venire”. Speriamo. Ma non è che io sia molto fiducioso. Non so quanto la situazione di estremo degrado possa attendere i tempi dilatati di taluni interventi pubblici, soprattutto di quelli che scarseggiano in visibilità, come può essere una modesta chiesetta di montagna.
E’ modesta, sì, ma incastonata in quel tratto di valle, è una presenza importante che ci invita all’ossimoro, e ci induce a definirla modestamente maestosa. Unica costruzione di quell’orizzonte, poiché la casa e gli annessi di un tempo sono ormai scomparsi, piantata lì su quel piccolo pianoro posto alla fine della Valle dello Stretto (“lu Strittu” il cui nome riecheggia ancora sinistro nei racconti delle tristi vicende del 1944) rappresenta l’ultima testimonianza di un mondo precedente, di una vita che per diversi secoli da lì è passata e avrà avuto le sue ragioni per trattenervisi. Una presenza di culto anche per chi ai culti non crede e non cede: culto religioso certamente, ma anche quello laico della memoria. Dalla sommaria analisi di quel che oggi ne resta, la Chiesetta, che all’incirca ha una superficie interna di venti metri quadrati, potrebbe risalire al XVII-XVIII secolo.
E’ una struttura semplice in muratura di pietrame, impreziosita da un ingresso a mattoni, posto in favore del sole che sorge e che illuminava l’interno grazie al piccolo rosone ogivale posto nel timpano. L’interno è ormai privo di tutto, solo un lacerto di pavimento in cotto. Così compare nel Catasto del 1810 :
Mi auguro che salga il livello di interesse di chi legge nell’apprendere, da un elenco di tutti gli edifici religiosi del comune redatto nel 1862, che la chiesa risulta dedicata a Santa Eurosia. Che splendido nome! Santa Eurosia di Fonte della Valle. EUROSIA… ma chi era costei?
Santa Eurosia di Jaca
“Santa Eurosia impetraci / Dal buon Gesù che turbini / E le tempeste e grandini / Lungi da noi sen fuggano”. (Invocazione a Santa Eurosia da Meggiano di Vallo di Nera – Perugia )
Tra cronaca e leggenda sul finire del IX secolo, nei pressi della città di Jaca, allora capitale dell’Aragona in Spagna, l’epilogo di una storia nata altrove, nella lontana Boemia. La cronaca fissa una data, l’anno 880; la leggenda si sofferma su particolari che introducono alla ferocia collocando l’azione della scena nella località di Jebra “presso la quale stassi sepolta difesa da una rupe un’orrida spelonca, ordinario ricetto alle serpi ed agli augelli notturni.”. [1]
In quella spelonca avviene il martirio di Eurosia, già nata come Dobroslava dal Duca di Boemia e, rimasta di lui orfana in tenera età, accolta dai nuovi duchi e ribattezzata col nome cristiano che la accompagnerà per il resto della sua breve vita, sedici anni appena.
Fu oggetto di interesse in una combinata unione matrimoniale, favorita niente di meno che dal celebre vescovo evangelizzatore Metodio (oggi insieme al fratello Cirilllo santi coprotettori d’Europa), con l’erede al trono di Aragona e Navarra, Fortun Jimenez. Il lungo spostamento che dalla Boemia doveva condurla al suo sposo, s’interruppe sui Pirenei spagnoli, proprio nei pressi della mèta, ad opera dei saraceni invasori capeggiati da un ‘rinnegato’, tale Aben Lupo. Il tentativo di fuga, insieme al suo seguito, lungo i versanti delle inospitali montagne, si spense in quella spelonca dove un paio di anni dopo un pastorello ritrovò i suoi resti che portò in salvo e che divennero da subito celebrate e venerate reliquie.
Il tumulto doloroso del martirio subìto dalla giovane Eurosia, a causa del suo rifiuto a concedersi rinunciando a fede e virtù, con l’amputazione sistematica delle mani e dei piedi e infine con la decapitazione, si sovrappose al rumore che dal cielo si sprigionò, nel medesimo istante, con un turbinìo di venti, folgori, e grandini improvvise che il culto popolare volle che così fosse riassunto, da una voce potente che veniva dall’alto e che silenziando i tuoni decretò: “Sia dato a Lei il dono di sedare le tempeste, ovunque sia invocato il suo nome“.
Santa Eurosia di Fonte della Valle
Santa Eurosia di Fonte della Valle, fu eretta dai Pongelli. Quella era un’ampia zona delle loro innumerevoli proprietà sparse un po’ per tutto il territorio santanatogliese. E anche lì, in quel tratto di montagna, dove finiva la loro, iniziava la proprietà dei Buscalferri, e poi quella dei Dialti, più in là i Pauloni e pochi altri. Anche lì, più o meno sempre gli stessi. Ancora nei primi anni dell’800, i Pongelli potevano contare su tutta quella fascia che circondava l’abitato e comprendeva la terra selvata del Nardo e del Nardello, i prati di Pian dell’Oppio, gli arativi del Vallone, del Panichello e quelli delimitati dall’Albaneto. Un profluvio di nomi ad evocare ogni angolo di terra; si fa presto a dire “Fonte della Valle”…
Per l’edificazione della chiesetta e ancor più per l’intitolazione, alcuni indizi attendibili ma ancora da verificare, sembrano ricondurre alla figura del concittadino Teodoro Pongelli (1670-1754) che fu Vescovo di Terni dal 1720 al 1748, zio (fratello del padre) del Giuseppe Pongelli fu Ottaviano che risulta proprietario di Fonte della Valle alla data del 1810.
Teodoro, insieme al fratello Giovan Francesco, iniziò il suo percorso ecclesiastico nel Collegio dei Somaschi di Camerino, tracciando quella strada che sarà poi replicata da altri suoi familiari (v. in questo blog: https://www.esanatoglia.eu/un-esanatogliese-recuperato-2). Il culto di Santa Eurosia penetrò in Italia grazie alla presenza spagnola nel nord del nostro paese e alla sua diffusione pare contribuì molto anche la spinta dei Padri Somaschi che avevano la Casa Madre a Vercurago in provincia di Lecco. Assai diffuso è infatti il culto nelle campagne del nord Italia, con localizzazioni e caratteristiche analoghe alla nostra: piccole chiesette, cappelle quasi, a volte semplici edicole o ‘figurette’ immerse nella campagna coltivata, come testimonia e sintetizza questa suggestiva foto di cui ringrazio l’autore per averne concesso a questo blog la riproduzione.
Niente di strano che un culto così ‘originale’ ma legato alla protezione di un bene così caro ai facoltosi Pongelli che dalla terra traevano grande alimento alle loro fortune, potesse indurre il colto prelato, con formazione ‘somasca’, a proporre la venerazione per la “santa protettrice della campagna” con particolare specialità nel preservarla da fulmini, saette e gragnolate.
Per la sua posizione, forse la più ostica, isolata e distante dal paese, quella impervia ‘pusció’, quel possedimento d’alta quota a 800 e più metri di altitudine, era inevitabilmente votato alla vita aspra e dura, di certo molto più che al piano. Per la nostra agricoltura, una sorta di landa estrema, bisognosa ancor più di altre di protezione dall’ alto, di un santo a cui votarsi.
Eppure, negli anni trenta del secolo scorso, ancora ospitava la patriarcale famiglia di Nazzareno Buldrini (1864-1936) che coi suoi due figli, nuore e nipoti, ammassava uno stuolo di quindici persone in quelle sette o otto tra stanze e stanzette di cui era composta la casa, traendo sostentamento da quei 30 ettari di terra ormai rimasti, che però comprendevano prati, pascoli e boschi e, solo in misura molto minore, un sassoso seminativo che nel corso di qualche secolo era stato sfruttato oltre ogni immaginabile limite.
L’ultima presenza fissa, dopo che il nuovo proprietario, il Professor Romolo Libani (personaggio di cui a breve ci occuperemo), riorganizzò l’immobile riservandosi una parte della abitazione come suo ‘buen retiro’ padronale, fu quella della famiglia di David Pocognoli (discendenti da Giuseppe di Gioacchino, ramo, diremmo oggi, “de l’Avenale”) che nell’immediato dopoguerra si trasferì lì proveniente, si pensi un po’…. da Fonte dell’Olmo (“fonde d’urmu”); manco 900 metri in linea d’aria, un paio di chilometri invece di carrareccia in mezzo a macchie e prati che consentirono alla famiglia di ‘emigrare’ da un versante all’altro del Corsegno. Erano le ultime manifestazioni di un’epica ormai al tramonto. Quanto avrebbe potuto durare ancora una situazione in cui, nonostante l’affitto fosse a “titolo gratuito” (se dobbiamo credere a quanto indicato nella scheda censuaria del 1951), ma la parte padronale aveva l’acqua e la latrina in casa, mentre i coloni, nelle restanti stanze, no?
Quel tipo di epica giunse in breve all’epilogo. Nel 1955, quelli che furono gli ultimi abitanti di Fonte della Valle, emigrarono a Fabriano. A Fonte della Valle iniziò la fase dell’abbandono.
Nell’utilizzo subentrò un singolare personaggio che qualcuno ancora ricorderà: Nunzio Caparvi. Un lungagnone massiccio e scuro, forse di colorito, forse di barba abitualmente non rasata, ruvido nei modi e nel vestire (l’ho sempre un po’ rivisto nello Zampanò di Antony Quinn, in quel capolavoro felliniano che è “La strada”) che io ricordo immancabilmente affiancato al suo cavallo, anch’esso slanciato, e pure scuro. Lo ricordo in particolare, e parliamo dei primissimi anni ’60, perché in occasione di una riparazione idraulica eseguita da mio padre, mi capitò di entrare in quella casa, già disadorna e parzialmente abbandonata, dove c’era solo una cucinaccia rimediata e una rete da letto con un giaciglio fatto di cappottoni militari incotechiti, dove il grande Nunzio si riposava a volte quando, per custodire il gregge e preservarlo dai lupi, decideva di far notte sul monte senza cavalcare giù fino alle Faranghe, dove era di casa. Di quelle immagini che restano…
Fino ai primi anni ’70, quindi, Fonte della Valle sopravvisse come stazzo di ovini, come alpeggio; dopo Nunzio, più nulla.
Santa Eurosia aveva vegliato e vegliava su tutto ciò, e resisteva e ha resistito. Le case non ci sono più; al Demanio, nuovo proprietario (Romolo Libani morì nel 1973), non hanno mai interessato. La sua chiesetta, ancora per un po’, sembra voglia resistere. Potrebbe essere in grado di farlo. Possiamo, vogliamo aiutarla?
C’è qualcuno disposto a fare qualcosa per salvarla ?
P.S. E’ questo che intendo quando (come è accaduto di recente nel ‘socializzare’ una discussione su sentieri, montagne, nomi ecc.) parlo di elementi che “marcano” il nostro ambiente, elementi su cui costruire una rete di percorsi (sia fisici che mentali) che si diramano nel territorio a realizzare un racconto unitario di ciò che questo paese è stato, e sulla base di ciò, sviluppare strategie per quello che vorrà / dovrà essere per evitare un appiattimento e un declino altrimenti inevitabili. Basta guardarsi intorno, cercare, riscoprire. Si può fare.
Amen.
[1] Marinelli D.Antonio, Ragionamento sacro intorno alla vita e al culto di S.Eurosia’ in Opuscoli religiosi, letterari e morali, serie terza Tomo I°, Modena, 1870