Prima che diventasse “netturbino” e quindi “operatore ecologico”, colui che armato di ramazza provvedeva a tener nette le strade e gli spazi pubblici, era “lu scopinu” (tra i salariati comunali, nell’800 santanatogliese per un periodo fu prevista in verità la figura dello “scopatore comunale”, qualifica che, con l’affermarsi e il diffondersi di ulteriori e più pregnanti significati, fu poi necessariamente soggetta a revisione linguistica…); per chiunque avesse voluto distinguersi, poteva essere anche lo spazzino (“lu spazzinu”). Chiedendo in giro, oggi ci si sentirebbe rispondere esclusivamente facendo riferimento a questo significato: lo spazzino (“lu spazzinu”) è colui che spazza.
Ma prima ancora che alla pulizia urbana, il termine “spazzinu” servì per lungo tempo a indicare tutt’altra cosa. In una accezione ormai quasi del tutto scomparsa nel parlare quotidiano, identificava il venditore ambulante.
Il termine ha avuto una diffusione nel centro Italia (aree umbro-marchigiana, laziale e persino abruzzese), con diverse sfumature che, come sempre accade, hanno dato luogo anche a ipotesi etimologiche diverse.
C’è chi lo ritiene collegato alla sola figura del merciaio ambulante, in sostanza venditore di stoffe (da cui l’ipotesi che il termine sia alterazione di “spezzìnu” da spezzo inteso come scampolo). [1]
Tra le voci della ‘Roma dimenticata’, quelle che riecheggiano in “Voci degli antichi e odierni venditori ambulanti di Roma” viene riproposto quale “Spazzino o Mercantino”, lo si indica come “generalmente israelita” e gli si attribuisce il tipico grido di richiamo “La fittuccia, donnee! Il cottone per le calze, donnee!”, il che sembra limitare la vendita agli articoli di merceria. [2]
In verità Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863), cantore della plebe romanesca, distingue lo spazzino dal mercantino, dedicando al primo il sonetto “Lo spazzino ar caffè” dove emerge la figura di un venditore di minutaglie (nel caso un oggetto in avorio), mentre alla figura del mercantino riserva il sonetto “Er mercantino a Campo-de-fiore” dove questi viene ritratto mentre è intento a vendere articoli di merceria (reticella per la testa e tessuto di cotone). [3]
Nella zona di Tarquinia e della Tuscia viterbese (che ricordiamo ha profondi legami con le nostre zone per le emigrazioni di tanta gente dal maceratese per le bonifiche avviate dopo l’Unità d’Italia) spazzino “è il venditore ambulante, specie durante le fiere”. Una rivista di studi locali (“Il Tarquinese“) azzarda l’ipotesi, senza alcuna plausibile spiegazione, che il termine debba essere originato da spezzìno, ossia abitante di La Spezia, e poi alterato in spazzino. Non convince.
Più verosimile appare l’ipotesi che si avvicina all’uso e al significato riscontrabili nelle nostre zone e che, con l’avallo di studiosi marchigiani (Crocioni, Ginobili), conferma il riferimento alla figura del venditore ambulante in generale e sostiene che l’etimo derivi “al certo dallo spandere che essi fanno le mercanzie loro. Difatti usan dire che un venditore ha spaso, quando ha steso la merce in un dato luogo in mostra per venderla.” [4]
Viene da suggerire a tal proposito anche l’attinenza con lo spazio (“lu spazziu”) che veniva ad essere occupato dalla mercanzia posta in vendita. sarebbe come “spanne me’ nu spazziu”; se questo, come usualmente accade, è assai ristretto, ecco che può diventare “lu spazzinu” ).
Comunque sia, spandere in uno spazio pubblico, pur se si era “spazzini”, andava fatto, anche allora, secondo regola e soprattutto pagando il dovuto. Pena sequestro merce e multa.
Ne patirono conseguenza i coniugi Giuseppe e Francesca Calcinari, “… Spazzini che vanno girando le Fiere ed altri luoghi per procacciarsi il pane…” e che, mercoledì 19 agosto 1807, reduci da una fiera a Fabriano, pensarono bene di mescolarsi tra la folla del mercato santanatogliese e senza pagar dazio, “spanne” (spandere) in un cantone della Piazza del Mercato (sotto a “Lu Murillu”) quella che poi, per chieder venia, cercarono di ridurre a “poca robbicciuola”.
Vita davvero grama quella dei commercianti ambulanti, piena di balzelli e anche di tanti rischi, tra cui quello d’essere assaliti e derubati, in particolare nel corso dei loro spostamenti, da furfanti e grassatori vari.
Troviamo testimonianza di ciò, assieme alla conferma dell’uso del termine “spazzini”, negli appunti romanzati attribuiti a Mastro Titta, al secolo Giovanni Battista Bugatti (1779-1869), “er boja de Roma”, solerte e implacabile esecutore di sentenze capitali per conto del Governo Pontificio.
Già a inizio carriera, nel 1802, egli annota con inusuale acredine la sorte che riservò a tale Domenico De Cesare: “lo impiccai sulla piazza di Ponte Sant’Angelo, il giorno 8 febbraio. E se vi fu mai uno che meritasse d’andarsene al diavolo colla fune intorno al collo, era lui. Aveva grassato un povero spazzino per togliergli i pochi baiocchi, coi quali doveva comprare il pane a’ suoi figliuoli.“.
Molti anni dopo, il 7 aprile 1845, in piena maturità professionale, in una piazza di Macerata eseguì la sentenza di morte tramite decapitazione nei confronti di tali Giuseppe Micozzi e Antonio Raffaelli “rei ambedue di omicidio e sgrasso in persona di uno spazzino”.
(Proprio in quell’anno, appena qualche mese dopo, toccò anche a un santanatogliese di lasciare la testa sotto un fendente di Mastro Titta, assestatogli sul patibolo allestito nel carcere di Spoleto, ma questa sarà un’altra storia…).
Nel 1854, essendo d’abitudine farvi mercato, il Priore emette un Avviso in cui si obbliga a tenere sgomberi “lo spazio della Loggia e Cortile” del Palazzo Comunale “che non dovrà essere occupato da chicchessia d’alcun materiale e dalle così dette Banche ad uso di spazzini”.
Frugando nei ricordi, il termine si associa alla figura di Giovanna Pedica (1917-1992) storica commerciante locale (merceria, abbigliamento, ma anche cartoleria e giocattoli…), che nonostante nei primi anni ’60 del secolo scorso avesse il negozio più moderno e confortevole del paese e non avesse nulla dell’ambulante e della girovaga, la vox populi indicava ancora (forse per qualche trascorso ad inizio attività e per distinguerla da altre omonime paesane), con l’appellativo di “Nannina la spazzina“.
[1] M.Cortelazzo – C.Marcato, Dizionario Etimologico dei Dialetti Italiani, UTET, 2005
[2] G.Zanazzo, Usi, Costumi e Pregiudizi del Popolo di Roma – VI. Voci degli antichi e odierni venditori ambulanti di Roma, 1908
[3] G.G.Belli, Tutti i sonetti romaneschi, www.liberliber.it (sonetti nn. 1886 e 1887)
[4] L.M. Reale, Voci di glossario da «Costumi e superstizioni dell’Appennino Marchigiano» (1889) di Caterina Pigorini Beri, Testo inedito (Perugia, 1996-1997, con aggiornamento bibliografico al 2002) www.nuovorinascimento.org marzo 2003
Caro Pino , noto con piacere che i tuoi scritti, godibilissimi come sempre , acquistano via via un tenore specialistico , da vero etimologo. Complimenti. Una curiosità: spazzare è un termine toscano ? Qui a Firenze si usa comunemente.
Grazie Andrea, mi basta fermarmi alla godibilità del racconto… Spazzare è termine italiano e rimanda al latino “spatium” spazio, quindi ha varie accezioni e può essere usato in contesti molto diversi che contemplano comunque lo ‘spaziare’, il ‘creare spazio’… Nell’àmbito della pulizia, è facile che l’elegante fiorentino vi ricorra più volentieri al posto dell’equivoco e strumentale “scopare”.
Molto interessante, come sempre molto piacevole la lettura dei tuoi scritti, grazie buona serata ciao
Piacevole per me il tuo riscontro. Grazie