E’ rimasto solo il nome, in un vicoletto che non sembra neanche offrire la possibilità di essere percorso. Un vicolo che non c’è, seppure si chiami proprio così: Vicolo Aringolo.
E’ difficile immaginare che un tempo possa essere stato qualcosa di più, di diverso. Eppure è così: lo spazio circostante, intorno a quel vicoletto e per una discreta estensione a partire dalla casa su cui è collocata la targa, ebbe in passato una sua rilevanza nell’assetto urbanistico e, di conseguenza, nella vita sociale del paese. Quella insignificanza che oggi resta, nasconde il ricordo di un passato davvero inatteso, è cenere di una storia bruciata. Una storia che va raccontata.
Partiamo proprio dal nome.
L’aringo (o anche arringo) come termine storico equivale all’arengo. La storia etimologica di queste voci non è del tutto accertata. I più propendono per il provenzale antico arenc mutuato dal gotico harihrings che configura una adunata militare in un circolo. E’ il percorso che ci conduce linearmente all’odierno ring pugilistico, non come forma, essendo questo quadrato, ma come senso. L’uso consolidato nella nostra lingua, ha fatto sì che arengo individuasse il luogo dove le assemblee dei cittadini si riunivano per deliberare (quando questa funzione si trasferì al chiuso di un palazzo, questo divenne in molti casi l’Arengario, in sostanza sede comunale), col termine aringo si andò invece a identificare più specificamente sia la corsa a cavallo, la giostra, il torneo, sia lo spazio in cui tutto ciò si svolgeva.
Nel nostro caso quindi, per quanto ci raccontano le nostre antiche carte, possiamo considerare l’aringolo, in virtù del suffisso -olo (che unito ad aggettivi o sostantivi forma termini cosiddetti alterati, con l’attribuzione di un valore diminutivo o vezzeggiativo) come un piccolo aringo, e quindi, pensando al raffronto di come un campo stia a un campetto, potremmo parlare di quello che oggi definiremmo un… campìttu: ovvero un luogo di dimensioni non estese, destinato appunto allo svolgimento di giochi, feste e svaghi vari, come effettivamente lo fu l’Aringolo santanatogliese (“l’Aringulu” si sarà certamente detto) stando a quanto attestato da vari documenti nell’arco temporale di almeno tre secoli. Un utilizzo che, successivamente, fu riservato agli spiazzi adiacenti le mura, in particolare quello che oggi è Piazza Martiri di Bologna e precedentemente veniva identificato col nome dei vari gestori del ‘Caffè’ che vi si affaccia; ancor prima era stato “Campo della Fiera nord” per distinguerlo da quella che oggi è Largo Portanuova che era “Campo della Fiera sud”. Ai tempi de l’Aringolo, questi spazi non erano utilizzabili, perché lambìti dal corso delle acque che discendevano dal Corsegno e confluivano nell’Esino, giù alla Sfercia.
Quello che oggi resta de l’Aringolo, che non è occupato da costruzioni, da proprietà private recintate e si offre quindi alla nostra vista, non suggerisce granché del passato che vi si svolse. E’ un comunissimo piazzale, completamente asfaltato, normalmente ricolmo da automobili in sosta e un po’ di contenitori per la raccolta differenziata dei rifiuti; i tentativi di mitigazione, si limitano all’aiuola fiorita, che separa ingresso e uscita dal parcheggio. L’edificato che fa da cornice, non è certo esaltante. Non so chi prevarrebbe se azzardassimo un confronto tra l’oggi e il tempo in cui l’intero piazzale era a servizio della pompa di benzina di “Aletta” (Alessandro Spitoni 1937-1998).
Proviamo allora, sovrascrivendo questa immagine un po’ anonima e poco confortante (si pensi, non ha neanche un nome quel piazzale, non è riuscito a ispirare una minima fantasia toponomastica), con qualche elemento storico che aiuti a stimolare alcune suggestioni visive. Si immagini allora un luogo d’incontro e di svago, proprio fuori porta. Collochiamoci, più o meno, a cavallo del 1500. Il paese, entro le mura, era densamente popolato, le piazze tutto sommato assai piccole e i luoghi di ritrovo erano bettole e osterie; ma stazionarvi non era poi facile per tutti perché i divieti erano tanti, e asfissianti erano i controlli sociali sui frequentatori. Ancor meno facile era il darsi a qualche forma di svago (i tempi erano grami, ma si giocava anche allora…) che richiedeva spazio, presupponeva movimento, trambusto, inevitabile disturbo delle quiete pubblica, oltre che rischio costante di danni a persone e cose.
Per tutto ciò, c’era allora l’Aringolo, gli ampi spiazzi immediatamente fuori porta, compresa la strada stessa, quella che oggi è via Roma, e che allora si chiamava proprio così: “strada de l’Aringolo“. In quegli spazi, tra le altre cose, si poteva praticare uno dei giochi più popolari e appassionanti: la ruzzola (se ne parlerà altrove, concedendogli tutta l’attenzione e il rilievo che merita), nei casi in cui ci si voleva esibire davanti a un pubblico non sempre disposto a seguire il gioco quando veniva praticato in strade di campagna ancor più lontane dal paese. Già, perché alla data del fattaccio era ancora in vigore il bando del 1597 di Hortensio Piselli Nobile camerte, Podestà della terra di Santa Natoglia che “proibisce a ciascuno il tirare cascio, et anco ruzzole di legno dentro alle mura della detta Terra perché si corre pericolo notabile da quelle persone che vanno per le strade dove si gioca.”
Siamo “a li 15 de gennaro 1604“. E’ domenica, e al divertimento si può anche riservare un po’ di tempo; lo spazio, lo riserva l’Aringolo. Tra strada e spiazzo, lì si esibiscono giocatori esperti, come lasciano intendere i termini usati nel racconto che faranno al Magistrato. Uno straniero (seppur appena camerte…) e tre santanatogliesi. Si scontrano due coppie: Venanzio Costa (il camerte) e Giacomo di Cesare Cofetti, contro Cesario Giordani e Giacomo di Morichello.
Nonostante il pieno inverno, deve essere stato un clima accettabile, sia per giocare che per assistere. Infatti, si dice ci sia parecchia gente. Forse per ripararsi dall’aria comunque pungente, nonché per restare ai margini de lu campittu de l’Aringulu, un gruppo s’appoggia al muro che cinge un orto di Angiolo Dialti. Al suo turno Giacomo Cofetti lancia una ruzzola che schizza su un sasso e piomba tra la folla. Colpisce in pieno uno spettatore, tale Antonio de Panichello, alla testa. Sangue, urla. Il Cerusico si arrabatta, da subito nei soccorsi, poi nelle cure; attesterà che il colpo è serio. Pare non ne sia morto, ma di sicuro il segno gli sarà rimasto, come rimase soprattutto la conferma che la rutola, o di cacio o di legno, fosse svago micidiale. Almeno per un certo periodo, il gioco venne bandito, allontanandolo da l’Aringolo.
Pur senza ruzzola, continuò comunque ad essere un luogo frequentato, non solo perché risulta vi si praticassero anche altri giochi, tra cui non meglio precisati ‘giochi alla palla‘ e anche “palla al balzo“, ma perché vi erano anche diverse botteghe di artigiani che avevano bisogno di maggiore spazio di quanto ne potessero godere entro le mura.
Nel 1662 è, ad esempio, attestata la presenza della bottega di “Polonio bastaro”, artigiano di buon nome, capace di bardare gli asini di boscaioli e carbonai con possenti e ben calibrati arcioni in legno e studiati sottopancia, sottocoda e suste, tali da garantire per i suoi basti, trasporti a pieno carico di bacculi o costipate valle di carbonella. Andavano fabbricati su misura e quindi provati direttamente sulle groppe dei destinatari. Un traffico che era consueto, lì all’Aringolo.
Più o meno nello stesso periodo, si rileva anche la presenza di un artigiano ceramista, con molta probabilità si tratta della “bottega de vasa” di tal Damiano Pignattelli; forse la stessa che in altro documento, a metà del ‘700 viene definita, nel racconto di una testimonianza, come “le vasarie vecchie“.
Ai bordi degli spiazzi sorgevano capanne, trasanne e, nella parte che degradava verso il fiume, teraióli (i terràgnoli, ovvero poco più di grotticelle scavate nel terreno) che quando non servivano da rimessa per attrezzi o altro, venivano utilizzati come rifugio notturno per i senza fissa dimora, o mestieranti, giovani giornatari che sopravvivevano sbarcando il lunario giorno per giorno. Un microcosmo che gorgogliava di vita, e le cui cronache fanno spesso capolino negli atti civili e criminali.
Intorno alla fine del ‘700 il luogo perse progressivamente la sua destinazione. Le funzioni di luogo di ritrovo e di lurza, cominciarono ad essere assolte dalla zona a ridosso delle mura e in particolare dagli spazi fuori Porta Sant’Andrea, ormai sistemati con la regimentazione delle acque e allargati al punto da poter iniziare ad ospitare anche fiere “di merci e di bestiame“, tanto da assumere il nome di “Campo della Fiera“.
Gli spiazzi de l’Aringolo divennero in breve di proprietà privata. Agli inizi dell’800, lo vediamo nelle particelle di questa mappa catastale: 586 Pauloni, 587 Censi, 598 Pongelli, e così via. Furono ovviamente i ‘possidenti’ a mettere le mani su porzioni di terra interessanti per futuri sviluppi fuori porta. All’epoca, la zona aveva già assunto una conformazione urbanistica assai simile a quella attuale. Gli spiazzi divennero orti e furono recintati con muri. Una parte, in tempi recenti venne riaperta per ospitare il distributore di carburanti, chiuso il quale, è poi tornata ad essere pubblica. Quel che oggi abbiamo. Quel che ci resta.
De l’Aringolo antico, niente più di questo; rimane solo il nome e quella targa che lo retrocede a “vicolo”. Un vicolo che non c’è.
p.s. 1
Una particolarità, di cui anticipo solo un accenno e di cui varrà la pena di parlare a parte perché in qualche modo è collegata a un singolare progetto imprenditoriale del primo novecento, è la presenza, nell’angolo verso la attuale Pizzeria, di una neviera (risulta, per quanto ne sappiamo, l’unica del paese) che per almeno un paio di secoli garantì, con il razionale accumulo della neve, le provviste di ghiaccio necessario a conservare alimenti e anche per diverse esigenze curative. Chissà che non vi abbia in qualche modo preso spunto il Francesco Santaroni che nel 1903 intese proporre l’impianto di una “fabbrica del ghiaccio“? Avremmo potuto avere, chi può dirlo, col tempo galantuomo e in vena di sorprese, i “Gelati Santaroni“, che in assonanza ci riconducono con nostalgia ai noti “Gelati Toseroni” della nostra infanzia. Una celia.
p.s. 2
A margine ultimo, una riflessione sul destino delle nostre cose. Nel giro di meno di due secoli, di quello che avete letto non è rimasta nemmeno la memoria, se non queste poche, episodiche righe recuperate da documenti che dormono in Archivio. Tutto cancellato. Sostituito… dal nulla. Immaginare che nello stesso arco di tempo (se non addirittura meno) possa toccare più o meno la stessa sorte a tanti altri luoghi, altri patrimoni, piccoli e grandi, ad esempio… a tutto il complesso del Vallato delle Cartiere (ex concerie, ex cartiere, ecc.) che è un concentrato di storia plurisecolare della nostra terra, dovrebbe far tremare le vene ai polsi. Pensiamoci (mi verrebbe da aggiungere “ogni sera, al tramontar del sole” e perché no, proseguire con “sarà l’appuntamento che uniti ci terrà” cit. J.Fontana), e se può essere utile alla causa, che ognuno, com’è in voga, apra il cancelletto che vuole: #maipiùcomelaringolo #memoriecancellate #vallatodellecartierepersempre #primadifarelecosesenzasaperesapevatele ecc. ecc.
Quando ero piccola, ormai diversi decenni fa, c’era un muro a recinto di un orto, dove oggi c’è il parcheggio, e, ricordo bene? un allevamento di castori. Soprattutto ricordo l’odore dei tanti ortaggi che vi si coltivavano, odori che mi sono rimasti “nel naso”, indimenticabili. Dell’orto se ne prendeva cura mia zia Rosetta, moglie di Alessandro Pocognoli, Mondinu, e spesso, quando in estate ero in paese, ci portava, me e mia cugina Onorina, con lei in quell’orto. Il muro che lo cingeva era alto, interrotto da una porticina che ricordo piuttosto angusta, che vi immetteva, ma dentro era per noi una sorta di giardino delle meraviglie…Certo, allora era tutto un altro discorso quanto a bellezza dei luoghi…purtroppo per oggi!
Dei castori non sapevo. La ‘Maestra Vittorina’ sostiene però che l’allevamento era gestito dalla madre del farmacista Lorenzo Gagliardi, e che si trovava sotto la loro casa, di fronte alla autorimessa Binni. Possibile? Comunque la bizzarria è confermata.
La storia la sapevo perché tu me ne avevi parlato in quanto io e la mia famiglia in vicolo Aringolo ci abbiamo abitato per ben sette anni. Comunque sempre interessante leggere i tuoi racconti grazie Pino buona serata ciao
Grazie Rita. Come nel Tibet… “Sette anni all’Aringolo” 😉
Ancora…tanto per una riflessione sulla parola: a Terni c’è via dell’Arringo, una strada del centro storico che da via Roma porta verso la piazza del Duomo, l’area in cui nel Medioevo si tenevano le adunanze dei cittadini di Terni.
Vista la collocazione, l’analogia potrebbe tornare…
Bellisssime storie del nostro piccolo grande paesello . Grazie Pino di far rivivere il passato di noi esanatogliesi
Grazie Andrea
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