ESTRATTO (il succo è tutto in queste poche righe…)
Nella Chiesa della Pieve c’è un organo antico e raro.
Venne costruito nel 1589, ma nella Chiesa di Santa Maria che allora si chiamava Sant’Agostino e che faceva parte dell’adiacente convento degli Agostiniani. Nello stesso periodo nacque in un palazzo lì vicino tale Carlo Milanuzzi, che divenne prima Agostiniano e poi, girando per l’Italia, ebbe una intensa e proficua attività artistica come valente organista, compositore, poeta, insomma fu quello che, vantandoci un po’ come càpita ovunque e a maggior ragione in una piccola realtà che di figure tali non abbonda, potremmo definire “un illustre figlio di questa terra” (prossimamente ne parleremo).
Intorno a quell’organo, sui cui tasti è facile immaginare abbiano scorso le dita del giovane frate Carlo, qualcuno ha pensato di organizzare un “Festival Organistico” intitolato… al fiume Esino (sic!), senza mai tenere in alcun conto il Milanuzzi e la sua notevolissima opera.
Come altrove sostenuto, qui si ribadisce che trattasi di grave leggerezza per la mancata valorizzazione del patrimonio culturale locale, frutto di quella scarsa conoscenza che si desume anche dalle notizie errate che liberamente girano e che qui vengono smentite.
Si racconta allora la storia di quando, come e da chi quell’organo venne commissionato, unitamente a diverse ipotesi sul perché il medesimo trovasi dove si trova e non dove dovrebbe trovarsi.
Premessa
Scrissi qualche tempo fa su La Nostra Comunità (lo trovate in questo blog qui) lamentando il fatto che sia stato organizzato un “Festival Organistico” che si è pensato bene di intestare al fiume Esino (“Festival Organistico d’Esino” è infatti il nome intero) in un paese che ha dato i natali, verso la fine del 1500, ad un valente organista, compositore, maestro di cappella in varie basiliche italiane, parlo di Carlo Milanuzzi (di cui presto pubblicheremo la biografia), senza che, nel corso delle varie edizioni del ‘Festival’, questi venisse minimamente menzionato, suonato, calcolato in alcun modo insomma. Una imperdonabile leggerezza, sia dal punto di vista del rispetto storico e filologico, che da quello della valorizzazione delle risorse locali, tenuto anche conto che lo stesso musicista, in quanto frate agostiniano, molto probabilmente si sarà formato musicalmente proprio suonando su quell’organo in particolare.
Non pensavo certo di produrre qualche risultato perché so bene che piuttosto che ammettere un errore, a volte viene più facilmente e diabolicamente il perseverare. Ma tant’è.
Pensavo però che almeno fosse da stimolo ad una corretta opera di informazione. Nemmeno quello. Così almeno pare dalla cronaca dell’ultimo concerto alla Chiesa della Pieve in cui viene riportato che (qualcuno l’avrà detto in quella occasione?) l’Organo Malamini fu “commissionato dalla nobile famiglia dei Dialti”.
Per la verità ho trovato anche un vecchio articolo sul periodico matelicese Geronimo dove si afferma la stessa cosa e non vorrei che sia quella la ‘fonte’. In quel caso c’è anche un errore sulla data di costruzione della Pieve, scambiandola per San Martino; ora intendiamoci, non è che uno sta a fare le pulci, ma accade poi che queste ‘sviste’ prendano consistenza e si propaghino, vengano ripetute, come forse in questo caso, perpetuandosi; cosicché chi ad esempio fa ricerca ‘leggera’, penso ai nostri ragazzi quando fanno attività didattica, magari non vanno a rileggersi “il Mazzalupi”, dove troverebbero la data giusta, è più facile che vadano a prendere l’articoletto che è più breve, non ha quelle ostiche note a piè di pagina, scritte a caratteri microscopici e con tutte sigle incomprensibili… Insomma, per farla breve: chi divulga dovrebbe stare un po’ più attento.
Digressione necessaria sulle notizie… incontrollate.
Dicevamo della commissione dell’organo da parte della “nobile famiglia Dialti”. Non è così. Innanzitutto la famiglia Dialti all’epoca non era “nobile” nel senso formale del termine, ma solo facoltosa, diremmo ’notabile’. A meno che non si intendesse la nobiltà… d’animo. Alla nobiltà come blasone i Dialti vennero ammessi durante la prima metà dell’800 come Nobili di Veroli (e ammessi ai Patriziati di Camerino e Treia nel 1830, di Ascoli Piceno e di Montalto Marche nel 1847, di Anagni nel 1852). Ma non è solo questo; è, soprattutto, che i Dialti non c’entrano nulla con la commissione dell’organo. L’organo Malamini fu commissionato e pagato in parte dai Padri Agostiniani e in parte dalla Comunità di Santa Anatolia (anche se in parti diseguali perché la Comunità intervenne per 1/5 della spesa); quindi fu il frutto della volontà di due soggetti ben distinti seppure, nella gestione del potere all’epoca, intrecciati in modo spesso inestricabile. La Comunità (il Comune, diremmo oggi), per di più, si fece carico del controllo e della supervisione nella esecuzione dell’opera. Questo ci rende l’organo, se possibile, ancor più prezioso e caro, perché ancor più nostro, perché frutto non di un singolo mecenate (che comunque siano sempre i benvenuti), ma dello sforzo e della volontà della nostra intera collettività. La precisazione, al di là del dato storico in sé stesso, mi sembra un elemento non certo di secondaria importanza anche alla luce del rinnovato uso che dell’organo stesso si vorrebbe fare.
La storia è questa
Dario e Claudia Dialti, (al primo è intitolata la locale Biblioteca), trovarono nei primi anni ‘80 all’Archivio di Stato di Camerino una copia dell’atto notarile col quale venne commissionata la realizzazione di un organo per la Chiesa di Sant’Agostino. Ne dettero notizia con un articolo apparso su La nostra Comunità nel 1986. Qualche tempo dopo, a coronamento di una specifica ricerca (il Comune era sottoscrittore dell’atto e una copia doveva pur esserci), riuscii a trovare il medesimo documento notarile nell’Archivio Storico Comunale.
I coniugi Dialti pubblicarono poi la trascrizione dell’atto in un altro articolo sul “Bollettino Storico della Città di Foligno” nel 1990, diffuso poi ‘in proprio’, come solevano fare i due studiosi, in varie Biblioteche (dal catalogo in rete risultano a Camerino e Tolentino) e alla loro cerchia di amicizie e conoscenze. Fui, come in molte altre occasioni, tra i ‘fortunati’, perché ritenevo un privilegio il ricevere le loro ricerche puntualmente precedute da una telefonata di preavviso da parte di Dario con cui sempre ribadiva, con la sua inconfondibile erre moscia, l’incitamento a continuare le ricerche sul nostro passato (in particolare quella sul Milanuzzi che a lui interessava anche perché famiglia imparentata coi Dialti) con pretese che facevano sorridere per la loro ingenuità (“vada a prendere quei pensionati che sostano all’ingresso del paese e li convinca a venire in archivio a riordinarlo, a trascrivere quel patrimonio che abbiamo lì dentro….”).
Digressione doverosa per Dario Dialti, e Claudia (ingiustamente dimenticata nei riconoscimenti e nelle intitolazioni).
L’atto notarile, dicevamo. A quel punto era stato semplicemente ritrovato un documento che attestava la commissione per la costruzione di un organo che ormai non c’era più. Solo una notizia, seppure molto interessante.
Questo fino a che Michel Formentelli, nel corso del restauro dell’Organo della Chiesa di Santa Anatolia, ovvero della Pieve, non mise in luce che quello su cui stava lavorando e che apparentemente sembrava essere un organo settecentesco, era in realtà un pregevole e raro “Malamini” risalente alla fine del ‘500. A quel punto, non poteva che essere quello di Sant’Agostino! E lo era. Lo è.
Allora proviamo a riassumere la storia di questo organo, atti alla mano, almeno quelli di cui al momento si dispone.
Santa Maria
La Chiesa di Santa Maria, già Sant’Agostino, già Santa Maria di Piazza (o anche “S.Maria fuori delle mura”), era a fine ‘500 assai più ampia di come la vediamo oggi e anche strutturalmente diversa. Si tenga conto che il fronte arrivava a filo dell’attuale Palazzo Zampini che era appunto il convento degli Agostiniani insieme al Palazzo adiacente (che in base alle quote principali di proprietà oggi potremmo chiamare Palazzo ‘Dolce – Senesi’); si immagini insomma che l’attuale parcheggio di fronte all’ingresso, compresi i due rigogliosi tigli, rientrava all’interno della Chiesa. Ce la descrive con dettaglio una relazione del 1650 di Agostino Bittoni Vicario Provinciale degli Agostiniani: “E’ di strottura, longhezza piedi Romani 78 ½ di larghezza piedi 27 ½ […] vi sono altari n° 11…”. Insomma una Chiesa grande “capacissima per la continua frequenza del Popolo in occasione di Prediche, la quaresima, l’avento…”. Era annessa al Convento che risultava avere “due chiostri il primo annesso alla Chiesa con cortile in quadro e loggie attorno […] Il secondo annesso all’orto con loggie da una parte.”. Aveva 10 stanze abitabili e inoltre “refettorio, cantina, cucina, Granaio, dispenza, canali, legnaro, stalla et altre offizine e pozzo.”.
L’organo
Inquadriamo quindi la scena in una di queste stanze del Convento, la “cella vinaria” che si affacciava sul “cortile in quadro”. Era il 31 luglio 1589. L’estate tardava ancora a venire. Avrebbe tardato ancora, anzi si potrebbe dire che non sarebbe mai veramente arrivata. Così sarebbe stato per l’anno dopo e quello dopo ancora. Inverno rigido ed estate piovosa, ripetutamente per tre anni di fila, causarono l’immiserimento dei campi abbattendo la produzione dei frumenti. Era l’inizio di un triennio di carestia tremenda. Anni terribili ovunque, molto più di quanto ogni tanto toccava affrontarne. Racconteremo ancora di questo periodo perché la vita si manifestò nella sua massima crudezza e si verificarono, anche da noi, atroci fatti di sangue.
La Comunità, sembrava quasi inconsapevolmente apprestarsi ad affrontare i tempi grami negli unici modi che sapeva e che poteva: intensificava le misure per disciplinare il Monte Frumentario, che serviva da ammasso del grano di scorta per affrontare le carestie e… si stava attivando per ottenere la Reliquia di San Cataldo.
Potremmo considerare parte della stessa speranzosa strategia, la presenza di quel gruppo di uomini nel Convento di Sant’Agostino. Erano lì d’altronde per dare un suono alle preghiere, per renderle magari più suadenti, più efficaci. Entro breve sarebbero stati costretti a farne ricorso più che mai.
In questa“cella vinaria” quindi, uno stanzone adiacente alla cucina adibito a tinello, il notaio Filippo di Vitale (che divenne poi casato dei Vitali, altra famiglia che per qualche secolo ebbe notevole importanza in paese) aveva radunato avanti a sé i convenuti che dovevano portare in esecuzione il volere del Consiglio Generale della comunità che nel mese di giugno prossimo passato aveva deciso di sostenere la richiesta dei Padri Agostiniani per costruire un nuovo organo nella loro Chiesa.
La comunità agostiniana locale poteva contare su di una cospicua rendita fondiaria (l’estimo dei terreni di proprietà era alla pari di quello delle principali famiglie del paese e inoltre aveva anche diversi fabbricati di proprietà) e aveva deciso di commissionare la costruzione di un nuovo organo per dare lustro alla Chiesa, in linea con l’attenzione che l’Ordine riservava alla musica liturgica. Ma vollero (o dovettero, chissà?) coinvolgere la Comunità per un contributo all’opera e per questo presentarono una formale “supplica”.
Sulla supplica dei Padri Agostiniani il Sindaco Generale Piertommaso Maccagnani davanti ai quaranta e più Consiglieri riuniti domenica 18 giugno 1589 argomentò “che l’opera del organo nella loro Chiesa merita esser aggiutato [aiutato], et favorito, dico che la Comunità li facci elemosina di cinquanta scudi, li quali non si sborsino se non per l’ultimo pagamento della mercede del Maestro, et che per questo la Comunità facci dui Deputati li quali tenghino cura et conto come depositarii de tutti dinari che si trovaranno et di quelli che ci sono per detto servitio”.
Succedendosi “ad rengheriam” (cioè alla balaustra presso cui ciascun oratore si recava per svolgere, appunto, la propria arringa) i vari consiglieri che presero la parola confermarono la volontà di aderire alla richiesta.
Nella stessa seduta dopo il rinnovo delle cariche, tra cui anche quella del “Sindaco Generale” e dopo aver discusso di come onorare la Festa di Santa Anatolia, del rinnovo dell’incarico del Maestro di scuola e del divieto del “Gioco della Piastrella con canti” (pena inflitta mezzo scudo), si decise di incaricare due deputati, Giovanni Laurenzi e Properzio Dialti (già incontrato altrove v. “Una pagina d’archivio”) e un “Depositario Pecunie” il Sindaco uscente Piertommaso Maccagnani che avrebbe avuto in mano il cordone della borsa.
Era presente in quel tempo nella città di Fermo, l’organaro “magnifico et experto viro mag. Baldaxarri Palamino Bononiensi” (“il magnifico ed esperto Sig. Maestro Baldassarre Palamino di Bologna”, anche se in realtà era nato a Cento nel ferrarese e nei documenti compare spesso anche con il cognome Palamini o Malamini che ormai è quello comunemente usato) il quale stava completando la costruzione di un grande organo nel Duomo, la Cattedrale Metropolitana di Santa Maria Assunta, tanto da aver impiantato nella città stessa una bottega con garzoni e lavoranti.
Non conosciamo le casualità che portarono a incrociare le strade del nostro convento agostiniano con l’organaro bolognese operante in Fermo. Possiamo certo riflettere sul fatto che un convento, non certo di somma importanza (all’epoca vi saranno stati 5-6 monaci e in generale molti di più non ce ne sono mai stati) e posto in una zona interna e periferica rispetto a grandi centri, fosse in grado di confrontarsi con chi agiva nell’àmbito di realtà molto più importanti come Fermo, o addirittura Loreto.
Si può pensare che l’aggancio possa essere stato quello che poi fu indicato come ‘esperto’ e che fece da garante e da collaudatore dell’organo di Sant’Agostino: il musicista fiammingo Sebastiano Hay. Un uomo veramente impastato di musica, compositore e fabbricatore di strumenti, organista e organaro, Sebastiano Hay era nipote e discepolo di uno dei maggiori maestri compositori del ‘500, Adriaen Willaert (1490 – 1562) fondatore della Cappella Dogale di San Marco a Venezia; rivestiva da più di un ventennio il prestigioso incarico di Maestro di Cappella della Basilica di Loreto e poteva vantare d’aver elevato la cappella lauretana alla pari delle più rinomate d’Italia. Vi era giunto nel 1563 e tenne quell’incarico fino al 1591. Loreto era un polo di riferimento costante per tutta la Chiesa ben oltre i confini della Marca; non è da escludere quindi che vi sia stata qualche comune conoscenza che consentì il contatto. La garanzia offerta dalla presenza di un personaggio come Sebastiano Hay non era di certo poca cosa.
Per la definizione delle caratteristiche tecniche e per la verifica e il collaudo venne affiancato da un altro esperto, nonché portavoce della committenza, che fu individuato nel Maestro Battista di Vannuccio (diventerà il cognome Vannucci che a Esanatoglia proseguirà per almeno tre secoli).
Dunque, addì 31 luglio 1589, davanti al Notaio e alla presenza di questi convenuti e testimoni:
Fr. Nicola Aspi. Priore del Monastero
Giovanni Battista Vannucci
Fr. Gregorio Damiani
Fr. Egidio Piergiovanni
Fr. Angelo Castellano
Giovanni Laurenzi
Properzio Dialti
Piertommaso Maccagnani
Sebastiano Hay
Baldassarre Palamino
Sante Carucci. Teste
Ioanne Taccaroni. Teste
Domenico de Iordanis. Teste
Valerio de Iordanis. Teste
si stende un atto con cui, a fronte del pagamento di 250 scudi il Maestro Baldassare Palamino si impegna a realizzare “Il qual organo et suo telaro et ornamento nel modo sopradetto ha tenuto et promette detto Maestro Baldassarre dare finito, in ordine, eretto et sonoro per il natale di nostro Signore prossimo da venire di quest’anno presente.”.
L’atto descrive dettagliatamente le caratteristiche dello strumento da costruire, i vari registri, “la tastatura di bosso di quarantacinque tasti con il suo pedale” e a.ltre dettagliate caratteristiche.
Da considerare la sicurezza e la garanzia prestata dal costruttore che si impegnava, in caso di inadempienza e di mancata consegna entro il termine stabilito, di ogni somma percepita a titolo di acconto, questo per marcare la differenza con altri: “ Il qual magistro Baldassarre per securezza di detti signori locatori acciò non restino defraudati di quanto le si promette, come altri in questa terra sono stati gabbati da altri maestri che hanno promesso et cominciato fare simile opera et non hanno finito, ha tenuto et promette dare securtà idonea in Fermo alli detti signori locatori di finire l’opera al tempo convenuto et di restituire, mancando, li cinquanta scudi et altro haverà havuti et che li sarà stato dato per tal opra.”
Tutto dovrebbe essere andato a buon fine. La realizzazione dell’organo nei tempi concordati, la soddisfazione del committente, i pagamenti: non risultano documenti che contraddicano questo felice esito.
A distanza di oltre quattro secoli, abbiamo quindi ritrovato lo stesso organo non più a Sant’Agostino (Santa Maria) ma alla Chiesa Santa Anatolia (Pieve). Perché?
Il trasferimento alla Pieve
Quando (e perché) sia avvenuto il trasferimento per il momento non lo sappiamo ancora. Sappiamo che spostare un organo del genere è operazione complessa.
Possiamo formulare diverse ipotesi, tutte da verificare con un attento esame delle fonti d’archivio che occorrerà reperire e consultare.
- Sull’organo che è ora alla Pieve, secondo quanto verificato in corso di restauro da Michel Formentelli, vi fu un intervento da parte dell’organaro Domenico Fedeli nel 1777: lo testimoniano nome e data incisi all’interno della struttura. Una prima ipotesi potrebbe essere quella di uno spostamento deciso di comune accordo tra le due Chiese; in una occasione del genere, l’intervento del Fedeli si sarebbe certamente reso necessario per lo smontaggio – rimontaggio e per gli eventuali lavori di restauro. Nel caso, non appare però chiaro il perché l’accordo sia avvenuto in quella data o comunque in quel periodo.
- Altra ipotesi potrebbe essere quella che riconduce al periodo napoleonico che, nonostante una breve interruzione possiamo datare dal 1798 al 1814. I Francesi andarono con mano pesante su Conventi e Monasteri che in gran numero vennero chiusi e spogliati di ogni avere. Anche quello di Sant’Agostino fu soggetto a questa sorte. Poiché le Chiese parrocchiali erano invece fatte salve, si potrebbe pensare che lo spostamento possa essere stato deciso per salvare l’organo da sicuro smembramento e distruzione. Ma agli atti nell’Archivio Storico Comunale non risulta nessun accenno per l’organo, mentre esistono documenti che attestano perfino il salvataggio delle campane di sant’Agostino. Non si salvò invece il Convento che fu anche depredato dei pagliericci dove dormivano i frati e perfino delle lenzuola.
- Una terza traccia potrebbe essere infine quella del periodo successivo alla soppressione del Convento; l’immobile (Chiesa compresa) ormai proprietà demaniale, risulta venduto a Cataldo Giovagnoli nel 1813 (anche se altrove si indica il 1867 come data della soppressione)[1]. La chiesa venne lasciata in stato di abbandono e nel 1822 risultava che “è stata fatta smantellata perché cadente, per eriggervene altra più ristretta” tanto è che le ossa dei defunti dei sepolcri interni erano rimasti allo scoperto e vennero “riunite in un’escavazione sotterrnea fuori della Chiesa da ricostruirsi.“[2]. Nella ricostruzione, il fronte della Chiesa arretrò fino ad assumere le dimensioni e forme attuali. Anche in quel periodo di abbandono potrebbe aver avuto senso, al fine di salvaguardarlo, trasferire l’organo in luogo più conveniente e cònsono.
Cercheremo di approfondire la ricerca
per dare una risposta a tutto ciò. Anzi, con l’occasione si formula un invito
anche agli appassionati del Malamini a cercare di impegnarsi nel ricostruire la
sua storia che, tra l’altro, potrebbe far emergere anche l’importanza che lo
strumento ebbe per stimolare la passione di altri musicisti che, oltre
a Milanuzzi, furono vanto di questa terra e di cui presto parleremo.
[1] C.Mazzalupi, La terra di Santa Natolia, pag. 63
[2] Lettera del Gonfaloniere di Santa Anatolia al Governatore di Matelica, 10 giugno 1822, ASC, prot.328