Scrissi queste pagine più di venti anni fa, in occasione di una sorta di mostra retrospettiva sulla storia del nostro Teatro Comunale, organizzata non ricordo in quale particolare occasione. Non cambio nulla di quanto scrissi allora, non solo per rispettarne la ‘storicità’, ma anche perché ritengo che l’esperienza di cui si racconta (e il modo in cui lo si racconta) mantenga ancora oggi una sua validità. Anzi, tenuto conto della altalenante evoluzione del tema ‘pari opportunità’, così come ci si consegna alla fine di questo ventennio del nuovo millennio, penso che conoscere la breve ma a suo modo intensa vita del “Collettivo 8 marzo” e confrontarsi con essa, possa costituire un importante stimolo alla riflessione sul presente, in quanto a tematiche, a impegno, a partecipazione. E’ una bella pagina della nostra storia. Un motivo di orgoglio che una piccola realtà come la nostra sia stata capace di scriverla.
Cosicché, più o meno un quarto di secolo fa, questo si scriveva:
Verso la fine degli anni settanta, un gruppo di donne esanatogliesi, di diversa ispirazione ma accomunate dall’identica necessità di ritagliarsi uno spazio di confronto e di discussione, in occasione della festa dell’8 marzo, decise di portare in pubblico la testimonianza di una presenza non effimera, di un impegno sui temi universali della pace, del lavoro, della democrazia e su quelli della specificità femminile.
Nacque il COLLETTIVO 8 MARZO, un gruppo eterogeneo che, come tutti i gruppi, visse evoluzioni e involuzioni fino a consolidarsi intorno ad un nucleo di una quindicina di elementi ben affiatati e legati da notevoli affinità.
Era il 1979, stava per chiudersi un decennio in cui la consapevolezza di potere e dovere alzare la testa si era fatta strada in un numero crescente di donne, pur tra mille difficoltà e contraddizioni e con le più varie sfumature, fino a penetrare vasti strati della popolazione, trasformandosi quindi da movimento elitario in movimento di massa.
Con i fisiologici ritardi che la propagazione delle idee (soprattutto quando sono positive e propositive) subiscono quando dal ‘centro’ si irradiano verso le ‘periferie’, ma con una maggiore consapevolezza dei limiti di alcune estremizzazioni del femminismo dei primi anni settanta, questo gruppo scelse il teatro come luogo fisico e come forma d’espressione per connotare la loro presenza ed esplicitare il loro punto di vista.
L’avvio fu tanto entusiastico nella partecipazione, quanto stentato e dilettantesco dal punto di vista prettamente teatrale.
Ma il teatro era ritenuto nulla di più che un mezzo, per di più occasionale, una sorta di tribuna; l’interesse era puntato sul messaggio e sulla comprensibile e caotica ‘voglia di dire’.
Una volta però rotto il ghiaccio (occorre dirlo, non fu facile…) e sulla scia dell’entusiasmo per i primi seppur modesti risultati, la passione per il mezzo si affinò e dette modo al Collettivo di affrontare il teatro in un crescendo di perfezionamento in quanto a presenza scenica, fermo restando l’intento di trasmettere, con la recitazione, un invito alla riflessione su problemi di rilevanza sociale e culturale.
Una attività che, seppur solo a cadenza annuale e legata all’occasione specifica della Festa della Donna, non distoglieva lo sguardo dai problemi più generali della società; un teatro, insomma, ‘impegnato’ (davvero viviamo tempi strani, se, per farsi capire, corre oggi l’obbligo di virgolettare l’impegno… )
Se anche si volesse oggi discutere ed obiettare sulle motivazioni culturali di allora (forse sarebbe più utile e giusto farlo per le de-motivazioni che oggi ovunque imperano…), l’esperienza del COLLETTIVO 8 MARZO merita indubbiamente un posto di rilievo nel panorama delle attività teatrali e più ampiamente di quelle culturali di Esanatoglia.
I risultati ottenuti, innanzitutto (6 rappresentazioni per altrettanti anni, con repliche anche fuori del nostro paese), ed inoltre il fatto che ad ottenerli fu proprio un gruppo di donne (basti pensare a quanti facili luoghi comuni sfatati, a quanto facile sarcasmo si esposero le protagoniste…); questa è la misura dell’importanza di questa esperienza.
Dopo anni e anni di immobilismo, in quanto ad attività teatrali autoctone, fu proprio con il Collettivo 8 marzo che attori (attrici) esanatogliesi tornarono a calcare le scene del locale teatro, e lo fecero nella maniera forse più difficile, concedendo poco allo spettacolo fine a sé stesso, ma impegnandosi a rendere il teatro specchio della vita e strumento, quanto mai utile, per modificarla e migliorarla.
1979
Il Collettivo 8 Marzo esordì nel 1979 con un breve testo che racconta l’episodio da cui trae spunto la ricorrenza dell’8 marzo come festa internazionale della donna.
Una sorta di animazione-ricordo dell’incendio scoppiato nel corso di uno sciopero alla fabbrica Cotton di Boston l’8 marzo 1908, in cui, nel disperato tentativo di difendere il loro posto di lavoro, morirono 146 lavoratori di cui 120 donne.
Una fabbrica alla periferia della città. Ciminiere, fumo, mattoni anneriti.
Il rumore monotono dei telai che vanno su e giù. Campeggia sulla fabbrica una scritta sopra un cartello che raffigura una donna elegantissima, con seno procace e sedere sporgente: “La Cotton per ogni vostro acquisto di tessuti”.
Mary, Joan, Elisabeth, Katrin e Cristine, si asserragliano in fabbrica per rivendicare i loro diritti e si raccontano le difficoltà della loro vita e i problemi del lavoro alla Cotton.
Per proteggersi dal freddo della notte e anche come rituale dissacratorio, bruciano il fantoccio del Sig. Johnson, il padrone della fabbrica. Dal falò, le fiamme si propagano allo stabilimento, intrappolando le operaie che muoiono nell’incendio.
Cristine: “Non ho tempo per pensare adesso se qualcuno ricorderà la nostra morte. Io credo che moriremo, eppure ho ancora la speranza di non morire. Ma se saremo costrette a morire, non voglio che si celebri la nostra morte come un sacrificio necessario. Voglio che tutti sappiano che noi siamo morte inutilmente, che avremmo potuto non morire, se soltanto non avessimo dovuto scontrarci con l’ottusa avidità di uno dei tanti padroni. Tutte le morti sono inutili, perché la vita vale molto di più della morte. Ma se dovremo morire, anche se siamo donne sconosciute e senza storia, proprio perché la storia non l’abbiamo fatta, appunto la storia noi l’abbiamo fatta. Se dobbiamo morire, tutti sappiano che eravamo donne come infinite migliaia di altre che lavoravano per vivere e per cambiare la vita.”
Tra le tante che parteciparono, oltre ad un folto gruppo di donne matelicesi, si ricordano (grazie all’ausilio della documentazione fotografica): Claudia Porcarelli, Giuseppina Leoni, Maria Orietta Minnucci, Emma Temperini, Maria Luisa Di Piero, Rita Lacché.
1980
Nel 1980, sulla scia dell’entusiasmo per il risultato dell’anno precedente, il Collettivo 8 MARZO decise di cimentarsi con una vera e propria opera teatrale.
La scelta cadde sulla LISISTRATA, del commediografo greco Aristofane (IV secolo a.C.), per l’importanza del tema della pace e per il fondamentale ruolo pacificatore che la figura della donna vi assume.
Le donne ateniesi e spartane per desiderio di pace decidono di non cedere alle voglie dei loro uomini finché essi continueranno a combattere.
In questo modo gli uomini sono vinti e Lisistrata, che ha capeggiato la congiura, tiene alle due parti un discorso nel quale ricorda la comune sorte che lega i popoli greci.
La festa finale si conclude nel modo suggerito dalla tradizione, che è nel contempo l’attesa conclusione della guerra fra i due sessi.
Nonostante l’incompletezza della messa in scena, dovuta al poco tempo a disposizione per le prove (venne recitata, tra l’altro, con il copione in mano), la rappresentazione riuscì, grazie al notevole impegno delle donne, alle loro evidenti capacità ed alla loro innegabile caparbietà.
Notevole fu la partecipazione alla realizzazione ed alla messa in scena, ottenendo così quell’effetto di coralità tipica proprio delle commedie classiche.
Costituì l’occasione, oltre che per riflettere e far riflettere sul tema universale della donna e la pace, a rinsaldare ed accrescere la passione per il teatro nella consapevolezza delle sue potenzialità come mezzo di espressione e di crescita individuale e collettiva.
Sono da ricordare, in questa prima edizione, Albina Coltrinari, Elvira Leoni, Francesca Pedica, Rita Tritarelli, Emma Temperini, Maria Luisa Gubbinelli, Giuseppina Foglia, Claudia Porcarelli, Patrizia Temperini, Giuseppina Leoni.
L’opera venne poi ripresa nel 1983 per una serie di rappresentazioni a Matelica, Castelraimondo e Macerata.
Alla seconda edizione del 1983 parteciparono: Tiziana Spitoni, Francesca Pedica, Vincenza Pallotta, Patrizia Temperini, Carla Giordani, Pierina Antonelli, Claudia Porcarelli, Giuliana Farroni, Graziella Soto, Emanuela Pascucci.
1981
La casa di Bernarda Alba è l’ultima delle grandi tragedie di Federico Garcia Lorca ( 1898 – 1936 ).
Definito dalla critica come “il dramma formalmente più perfetto di tutto il teatro spagnolo contemporaneo“, è l’oscura tragedia di un microcosmo femminile in una casa di campagna dominata dalla dispotica autorità della protagonista.
Bernarda Alba, reprime ogni anèlito di vita delle proprie figlie, soffoca ogni loro desiderio di amore, di allegria, fino a spingere la più giovane al suicidio pur di liberarsi dalla morsa materna.
Non c’è speranza in Bernarda Alba, ma desolazione e morte: una metaforica sintesi della situazione di guerra civile che la Spagna stava vivendo in quel tragico 1936 e quasi un presagio della sorte che di lì a pochi mesi sarebbe toccata all’autore: fucilato dai franchisti dopo l’assassinio di Calvo Sotero.
“E’ importante sottolineare la limpidezza con cui l’autore affronta il problema Donna; egli la cerca fino in fondo, solo e semplicemente come Donna. con coraggio. nella sua totalità umana, naturale e quotidiana, se è necessario anche con dolore, senza appiopparle elementi di angelicità o divinità che in quel momento sarebbero risultati assolutamente fuori luogo. insomma con un grande rispetto e considerazione per quelli che erano e sono i problemi reali della donna in una terra che vive i momenti drammatici di lotta per il mantenimento della libertà e della democrazia.” ( Dal prologo di presentazione )
1982
La riflessione sulla condizione e sul ruolo della donna, in particolare sull’importanza del condizionamento educativo che inculca determinati valori culturali, alimento primo della presunta diversità, indusse il collettivo 8 MARZO ad affrontare il problema dell’educazione infantile e quindi a misurarsi con il mondo delle fiabe.
Le fiabe hanno sempre fatto parte dei messaggi educativi: generazioni intere sono cresciute tra orchi e fate, bianchenevi, e cappuccetti rossi che venivano modificati, assieme al loro contesto, a seconda delle esigenze; la fiaba così trasformata rientrava nel novero degli strumenti dell’educazione, o meglio dell’imposizione e dell’adeguamento ai valori dell’educatore.
Le fiabe infatti, nelle loro tradizionali versioni, si prestano a manipolazioni didascalico-ideologiche perché sono contraddittorie, ambigue, riflesso della vita e della realtà.
Un veicolo quanto mai efficace per la trasmissione di modelli comportamentali, stili di vita, valori sociali e culturali.
Un ‘luogo deputato’ alla formazione della diversità.
Dalla rielaborazione di alcune delle più celebri favole, come sintesi di discussioni e interpretazioni collettive (coordinate, per quanto atteneva all’aspetto scenico, da Pino Bartocci), nacque “COSA BOLLE NEL PENTOLONE DEI SOGNI”: un atto unico basato sulle vicende di alcuni dei personaggi delle fiabe classiche, quelle che hanno improntato la nostra infanzia.
La rivolta di Cappuccetto Rosso, la presa di coscienza della Bella Addormentata, la tormentata esistenza e l’intrigante presenza della Strega, il tutto in un intreccio di situazioni e di capovolgimenti di ruolo dei vari personaggi che nel turbinìo degli eventi ed a confronto con la dura realtà della vita smarriscono il senso del loro ruolo fiabesco e svaniscono nel nulla ( “Tornati da dove son venuti … dalle nostre ansie, dalle nostre paure…. dal nostro desiderio di essere altre, dal sogno, carissime… “).
Ma resta sulla scena una traccia del passaggio di questi sogni: il cestino di Cappuccetto Rosso, con un apologo che suggerisce ed indica la necessità di pensare i mondi fatati e di accoglierne i significati, minimi ma fondamentali, come chiavi interpretative della nostra esistenza.
Un’esperienza che consentì di scoprire le straordinarie doti di teatralità del gruppo; doti che, fino ad allora, erano rimaste in sordina anche per il tipo di repertorio affrontato e che vennero messe a frutto nei due anni successivi con opere ancor più impegnative.
E’ ancora preciso il ricordo della prorompente Elvira Leoni. con il suo Cappuccetto Rosso, della dolce e trasognata Bella Addormentata resa con melopèa latino-americana da Graziella Soto, di Claudia Porcarelli che aspramente caratterizzò la tormentata esistenza e l’intrigante presenza della Strega, e inoltre di Francesca Pedica, Pierina Antonelli, Carla Giordani, Patrizia Temperini .
“…. Ma passi l’immagine della donna malata di dolcezza (che sembra serva per il potere della vecchia arroganza o … per la vecchia arroganza del potere… ), passi l’impertinenza di labbra di fuoco sotto al cielo degli occhi (l’impertinenza di emulare la natura, si capisce … ), passi anche il fiotto di occasioni non carpite abbastanza … ma non l’infinito quotidiano nato da sconfitte di cui non c’è più traccia, il quotidiano mai finito che alimenta la presunzione della Storia. E fra tutte le immagini uncinate ci sfibrano maggiormente quelle del paese dal quale provenimmo, per discendenza, rotondo di animali, di letti, di frodi e lunghe veglie, di mele, ragni e miracolosi baci; il paese delle fate, delle streghe, principessine e povere bambine; dei cappuccetti, dei fiocchi, dei ‘merletti, delle treccine delle povere bambine. Sarà utile parlarne: dentro un confronto, una insistente richiesta di chiarimenti. Sarà utile parlarne anche se l’opportunità del contraddirsi, non sarà opportunità, ma traccia . … oppure un modo dei tanti per irridere e per sollevarsi da terra, almeno un palmo. Sarà utile. “
(Dal prologo di presentazione)
1983
“L’ORFANA E IL REGGICALZE”
Libero adattamento di un monologo di Stella Leonetti e interpretato, sulle scene nazionali, da Lella Costa.
Teresa Ratti, giornalista precaria e fidanzata in contemporanea a due uomini (l’Intellettuale Democratico con Moglie-Mamma e il Nevrotizzato Ginnico, ex-capo del servizio d’ordine di Avanguardia Operaia), oltre che con Eugenio Scalfari, è “l’Orfana in Reggicalze” di cui Stella Leonetti racconta con tenera perfidia il privato arruffatissimo e un po’ cialtrone, secondo l’immagine dei suoi maschi latitanti.
“… sì signora, Ratti… ho capito che non c’è, ma dovrebbe dirgli per cortesia che io mi sto suicidan… Ratti, sì signora, Ratti con due ‘T’ !! …“
“Non ce la faccio più con questa storia, con te e con Nicola: lui non è disponibile e con te si sta rovinando tutto e neanche so perché.”
“…io mi sogno spesso… Scalfari! Come un principe azzurro, col suo cavalo bianco… e mi chiama, mi vuole… Teresa… Teresa…, anzi, Ratti… Ratti… vorrei fare… vorrei avere… un libro da te!“
“Oh! Non per dire una cosa scontata, ma io, in quanto amante, cosa sarei: un reperto archeologico? La serva della gleba? Certe volte mi fa una rabbia che…“
Maschi che vanno e vengono nella vita di Teresa tra straccetti rosa e lilla, vecchi manifesti di Lenin e pediluvi bollenti, ingarbugliandosi nel filo del telefono e nelle lenzuola di un letto perennemente sfatto, mentre “la Cialtrona” testardamente continua ad aggrapparsi alla sicurezza delle parole “come Francesca Bertini alle tende”.
Un testo irriverente che compie la scelta dell’ironia come l’arma più feroce in mano alle donne.
La multiforme personalità di Teresa Ratti, le sue esasperate introspezioni, vennero rese sulla scena dalla presenza contemporanea di quattro attrici che rappresentavano le diverse sfaccettature del personaggio; il monologo si trasformava così in una sorta di dialogo interiore, incessante ed autopunitivo, un confronto/scontro spinto a livelli parossistici tali da conferire all’atto unico la brillantezza d’una operetta e la cupa franchezza d’una seduta di autocoscienza.
Bravissime e totalmente immedesimate nei ruoli, Elvira Leoni, Tiziana Spitoni, Giuliana Farroni e Francesca Pedica, fasciate di rosa e nella penombra di un appartamento sconquassato come la vita della sua occupante, esibirono il loro talento ed il loro grande affiatamento.
1984
Edna St. Vincent Millay (Rockland, Maine, 1892 – 1950) è un nome illustre nella storia della letteratura americana. Le sue raccolte di versi sono oggetto d’ammirazione per il garbo, l’abilità tecnica, la sensibilità squisita, il sottile amalgama tra una ricchezza di riferimenti culturali e un’attenzione non banale ai temi del giorno. In teatro, comunque, è presente solo occasionalmente, quasi da turista. Partecipa allo sforzo dei Provincetown Players, persino come attrice, probabilmente perché vive nel Village e del Vtllage di quegli anni il gruppo è diretta emanazione.
‘ARIA DA CAPO’ viene rappresentata per la prima volta il 15 dicembre 1919 proprio dai Provincetown Players nella loro sede di New York.
E’ un atto unico in versi e comincia con una delle innumerevoli varianti sul tema Colombina e Pierrot che dialogano di graziose sciocchezze in un linguaggio mutuato da certa poesia, soprattutto francese di fine secolo.
Interviene ad interromperli Coturno, la maschera della tragedia, che introduce due riluttanti pastori, Tirsi e Coridone.
Con qualche elemento di ‘teatro nel teatro’, è una elegante variazione su temi della tradizionale letteratura bucolica quella che si mette in moto, ma poi, a poco a poco, il colloquio si trasforma in discussione, la discussione in disputa, la disputa in contrasto violento: Tirsi avvelena Coridone, Coridone strangola Tirsi.
Rientrano Pierrot e Colombina con i due cadaveri in scena.
Coturno ingiunge di nasconderli e di riprendere la loro esile farsetta.
“Il pubblico – dice – dimenticherà”.
Con eleganza, grazia ed ironia, quest’opera testimonia uno dei tanti modi con i quali la generazione di quel dopoguerra prese le proprie distanze dalla retorica patriottica e militaresca ed espresse la propria netta avversione ai conflitti armati: il modo è quello dello smontare, elementarmente si capisce, i meccanismi per cui le guerre scoppiano.
Ciò viene compiuto con la lucidità di chi espone un semplice teorema e con un accorto passaggio dalla chiacchiera al fatto di sangue attraverso una successione di gradazioni.
I versi carezzevoli, ironici, eminentemente recitabili, creano inevitabilmente un clima di apologo fiabesco: il finale lascia intendere che chi scrive non si fa molte illusioni sull’efficacia del suo messaggio.
Con “Aria da capo” termina l’impegno teatrale del gruppo. Nel 1985, si sarebbe dovuto proseguire. Ci furono solo alcuni incontri a seguito dei quali la scelta cadde su “Aspettando Godot”. Progetto ancor più ambizioso. C’era la volontà di un ulteriore salto in avanti. Purtroppo evenienze varie nella giostra delle rispettive vite, non consentirono di affrontare Beckett. Quell’anno si optò allora per un cineforum al Cinema Orione. Iniziativa decorosa, ma in tono minore. L’anno successivo, poi, non si riuscì nemmeno in quello. Il “Collettivo 8 Marzo” aveva di fatto terminato il suo percorso, lasciando comunque una traccia importante. Vale ricordarla.
Grazie Pino questi ricordi oggi scaldano il cuore, iin un momento così difficile per la nostra comunità. Che belle emozioni, eravamo molto avanti (). Anticonformista, per quel periodo certo non eravamo ben viste, ma noi eravamo felici e vi divertivamo molto. Buona serata ciao un abbraccio a te e Carla
Una bella storia, che non conoscevo.
È bello vedere che nel nostro paese, seppur piccolo, l’energia e la voglia di migliorarsi non sia mai mancata.
Grazie Pino per questi ricordi che condividi!
MITICO!