Una giornata a Palazzo. Anzi una mezza giornata. In uno de “I luoghi del silenzio“, tanto m’è bastato per ascoltare diverse cose davvero interessanti, qualche accenno di delirio e molte parole impregnate di estremo ottimismo in generale e nel particolare sulle sorti di quella struttura dal nome ondivago. Nella locandina dell’iniziativa è apparsa anche la dicitura “Villa Malcavalca del Conte Malcavalca di Albertino”. Ma quando mai? Forse è il caso di decidere una volta per tutte un nome che sia aderente alle fonti storiche senza lasciare spazio a tante fantasie. La più corretta, suffragata da fonti storiche certe, ritengo possa essere “Palazzo di Vallecuiana” (o Valle Acuiana). Comunque, mentre mi aggiravo un po’ frastornato per quegli spazi che per decenni ho percorso in lungo e in largo, fuori e dentro, in tempi di rovina e nel corso del recupero, la sorte mi ha riservato una straordinaria sorpresa, un incontro fortuito che mi ha riequilibrato.
Un risarcimento a tutto quanto m’era fin lì apparso un po’ artefatto e sopra le righe. Tra la gente che gironzolava come me, ma con altri rovelli, m’è capitato di sentire un uomo anziano che, indicando la porta d’una casa, imprecava perché non ricordava il nome del proprietario che un tempo vi abitava. “Questa era casa de… de…”, e si sforzava appoggiandosi al cognome: “Modesti… Modesti…“. “Giuseppe” sono intervenuto in aiuto; “detto Pepparéllu” ho aggiunto di rinforzo per togliere ogni dubbio sul mio livello di padronanza dell’ambiente.
È bastato questo a sedare l’ansia per quella momentanea amnesia e in un attimo, aprire nel mio interlocutore un flusso di ricordi e di racconti che ha riportato il principio di realtà in quell’angolo di mondo altrimenti avvolto in una nuvola di idee, di propositi, di conoscenza del territorio, di appartenenza, di memoria e di tutto ciò che per qualche ora avevo assorbito.
Tutto bello (o quasi), intendiamoci, ma effimero, passeggero, un déjà-vu; son passioncelle fugaci, tanto per imbastirci su un ‘evento’ tipo quello di oggi, per darsi un po’ di lustro, forse pavoneggiarsi, o consegnarsi alle intime soddisfazioni del ‘professore’ di turno. Così pensavo tra me e me, ricapitolando le trascorse esperienze e convincendomi sulla definizione: passioncelle fugaci. Perché come altro spiegare l’esplosione d’interesse di qualche anno fa per l’archeologia? Che fine hanno fatto i reperti degli scavi, i Piceni, anch’essi degnati all’epoca di apposito convegno? E la ceramica, la “Città della ceramica” con tanto di “Disciplinare per la produzione” che in un cartelloncino appeso dentro Palazzo viene dato per fatto, e non è vero; e il “Museo della ceramica antica“, che fine ha fatto? Che fine ha fatto “l’opera omnia” del Milanuzzi (e tutto il resto collegato, intitolazione del Teatro, la “Città della musica“, convegno…)? Che resta di quell’afflato universale che aveva accompagnato l’adesione al progetto del “Parco della Pace – Tutteleterredelmondo” (tema sempre più attuale) collegato al recupero del Roccone (che da mesi ormai neppure gode più di luce notturna)? Passioncelle fugaci, come definirle altrimenti? Sarà di nuovo così… Boh!? Vedremo.
Mentre così riflettevo, fortunatamente ho incontrato lui, un diversivo che ha quietato i miei interrogativi e mi ha riappacificato con l’ambiente in cui mi trovavo.
L’uomo, anche lui un Modesti, si chiama Fulvio e è nato a Palazzo nel 1940, “in quella casa delì, la prima dopo quella de Pepparéllu…” Una casa piccolissima, nei suoi ricordi, così come lo è in realtà, al tempo ricolma di persone. Oggi si parla di “albergo diffuso“, allora diffuso era solo il disagio di vivere in tanti in spazi così angusti e in un ambiente duro. Fulvio racconta che qui ha vissuto fino all’età di 7 anni, poi la famiglia, dopo almeno tre generazioni, si spostò a Masciano, in una campagna più accogliente e meno impervia, e quindi a Matelica, in un progressivo allontanamento da quell’isolamento di Palazzo, da quella terra ostile e avara. Ansia di riscatto sociale e tanta caparbietà, hanno riservato a Fulvio una carriera scolastica impensabile a quei tempi e in quelle condizioni, tant’è che dapprima la interruppe per poi riprenderla con convinzione quasi rabbiosa, fino a laurearsi in Scienze Naturali all’Università di Camerino. Da lì alla immediata entrata in ruolo come insegnante in vari istituti della provincia. Una vita nell’insegnamento partita da quella sorta di topaia sovraffollata immersa in quel mondo che nell’immediato dopoguerra, alla vigilia del suo definitivo crollo culminato con lo spopolamento di Palazzo, per condizioni di vita era ancora proiettato nel tetro Ottocento. Oggi avvolge tutto con uno sguardo umido di nostalgia e di affetto per quelle sue radici, ma le parole che usa certificano una consapevolezza amara: da lì si poteva solo scappare.
Alla domanda se ritenesse di essere l’unico laureato di Palazzo, lo sfiora un sorriso “Li fiji de li padruni studiaa tutti, chedunu se sarà laureatu”.
Chissà… un giorno, qualcuno di questi potrebbe tornare a Palazzo, magari per fare un convegno.
Intanto, forse a causa della distorsione mentale frutto della passione per Faber, mi tamburellava in testa un suo brano da “La domenica delle salme“, solo per assonanza e senza alcuna irriverenza…
“… voi che avete cantato per i longobardi e per i centralisti
per l’Amazzonia e per la pecunia
nei palastilisti
e dai padri Maristi
voi avete voci potenti
lingue allenate a battere il tamburo
voi avevate voci potenti
adatte per il … “
Claudio, una brava e cara persona.