“Simo d’Esanatòja”
Bisogna ammetterlo, un po’ disorienta. Che, se vogliamo, è il colmo per un nome che in sé richiama proprio l’oriente.
Quando rendiamo conto della nostra provenienza, per farci capire siamo di solito costretti a scandire. La “E” iniziale ci suona mediamente sfuggente (a chi non è capitato, in questi casi, di ritrovarsi a Sanatoria e dintorni…). In più ci manca la corretta articolazione del digramma “GL”. Una sorta di dislalìa funzionale, cioè un disturbo di articolazione di questo suono quando ci esce di bocca. Un problema che abbiamo in comune con diversi altri dialetti del centro Italia. Per noi è assai marcato. Come se avessimo una alterazione organica che non consente alla lingua di roteare adeguatamente, fermandosi alla più agevole e secca “I”, che però non è un colpo di scure e scivola via come solo noi sappiamo fare e si allunga a tal punto che, per scriverla, tendiamo, per una sorta di convenzione d’uso, a rappresentarla con la “J”.
Onde per cui, “sìmo d’Esanatòja”. E scandendo il suo nome ognuno libera la propria intonazione. Vogliamo esagerare? Il proprio canto d’appartenenza. Una sorta di Inno.
L’origine
Assonante ma ben diverso il nome originale. Non conosciamo l’inizio. Di quel momento in cui prese corpo la decisione che questo luogo avrebbe avuto un nome, quel nome.
Sappiamo però che nell’anno 1015 era già Sanctae Anatholie. In una pergamena che ci tramanda la generosità con cui la Contessa Berta di Amezone e il Conte suo consorte Attone degli Attoni, per “la salute dell’anima e la remissione dei loro peccati”, donavano una parte dei loro beni ai monaci Benedettini di Sant’Angelo infra ostia, compare il nome che per oltre otto secoli designerà il territorio in cui viviamo. Il nome di una Santa quindi. Anzi, il soprannome.
Callìstene Anatolia
I racconti provengono dai vari ‘Martirologi’ e dalle ‘Passio’, dove storia e mito sono fusi e confusi in un corpus unico che districarlo, ancor prima che arduo, può ritenersi esercizio inutile, almeno per la modestia di questa sede.
Siamo nell’Anno del Signore 244: parte il racconto. Mauro Fulvio Emiliano, ricco patrizio romano convertitosi al cristianesimo, nel suo rientro a Roma dall’Oriente, richiamato a far da Console dall’arabo Filippo quando questi divenne Imperatore, portò con sé la sua unica figlia, Callìstene (in greco vuol dire ‘la più bella’), che egli volle rendere ancora più attraente con l’aggiunta del cognomen Anatolia (ovvero ‘l’orientale’). La bella orientale, poco più che ventenne, seppur già consacratasi ‘Vergine di Cristo’, non poté sottrarsi alle attenzioni e alle pretese del giovane nobile Tito Aurelio che la richiese in sposa. La storia è quella poi di tante vergini cristiane disposte al martirio pur di non cedere all’oltraggio di avere altri sposi oltre il Cristo che pervadeva le loro vite. Consumò gli ultimi anni della sua breve esistenza a respingere le insidie del pretendente. Il suo martirio passò per quello di Calocero e Partenio, due eunuchi a cui il moribondo console padre aveva affidato sia l’integrità di Callìstene che l’amministrazione dei suoi cospicui beni destinati ad esser venduti in favore dei cristiani bisognosi. I due, riconosciuti anch’essi come cristiani, furono processati e bruciati vivi. Toccò poi a Audace il Marso, che da aguzzino incaricato di sopprimerla nella sua cella di prigionia per mezzo di un velenosissimo serpente (la Marsica, da cui costui proveniva, ancora ai tempi d’oggi è terra di serpari), venne dal rettile stesso minacciato e fu salvo solo grazie all’intervento, miracoloso, di Anatolia. Convertitosi per il pericolo scampato, non poté evitare il martirio per esser venuto meno al compito affidatogli. Santo anche lui.
Fu quindi il turno di Callistene Anatolia, o semplicemente Anatolia, come avevano ormai preso a chiamarla.
Il martirio
Dopo aver percorso in lungo e in largo la Sabina e parte della regione del Piceno, avendo modo di manifestarvi, oltre all’ordinaria pietà cristiana, la straordinaria dote di guaritrice che le venne riconosciuta in un periodo in cui imperversava in quei luoghi il pestifero ‘morbo etiope’, fu imprigionata dal suo pretendente nelle proprie tenute della antica città di Tora.
Fallito il morso della serpe, fallite le ultime insistenze di Tito Aurelio, la sua sorte fu segnata: per mano di un sicario, fu trafitta da una spada il 9 di luglio dell’anno 251.
La venerazione per la Santa, l’arrivo delle sue reliquie nella nostra terra, la loro custodia, l’organizzazione delle feste in suo onore, sono storie lunghe e articolate e meritano un racconto a parte.
La frequentazione della regione Picena, il cui limite a nord era proprio il corso del fiume Esino, può spiegare la diffusione del suo culto e quindi anche del nome che i nostri antenati scelsero.
Nome che, nel corso dei secoli, fu Santa Anatolia, ma anche Santanatolia, o in altre occasioni Santanatoglia, o ancora Santa Natoglia. In mutevoli versioni quindi, a seconda delle occasioni e dell’estensore dei documenti. Fummo così, comunque, per un millennio o giù di lì, legati a questa Santa che in una iscrizione del IV secolo al Cimitero di San Callisto a Roma è così suggestivamente evocata: “Dulcis Anatholiae refrigerii”.
Tempi nuovi
Poi, avvenne tutto in pochi mesi. Ma in un periodo di cambiamenti immani. Era l’estate del 1862. Il novello Regno d’Italia aveva da poco compiuto il primo anno di vita. Era sommerso da problemi economici, sociali, amministrativi, in un totale turbinìo su cui si addensavano irrisolte questioni. La questione Romana, con l’ostilità della Chiesa che rivendicava il potere temporale e contro cui nell’agosto di quell’anno avrebbe provato a muoversi Garibaldi. La questione meridionale, che vedeva ampie zone del sud del Regno in armi contro la cosiddetta ‘piemontesizzazione’ a cui si rispondeva con il cosiddetto ‘brigantaggio’. Il nuovo potere aveva necessità di imprimere cambiamenti forti e di sostanza. Forse quello della modifica della denominazione dei Comuni, nonostante riguardasse molti casi di omonimia, non rappresentava di certo una delle principali questioni, né delle più difficili da risolvere. Ma il nome è la sintesi di una identità e i sovvertimenti possono urtare inaspettate sensibilità. Questo può spiegare anche la diffusa opinione che attribuiva alla forte componente in odore di massoneria, ormai giunta al potere tramite i Savoia, la volontà di cancellare il più possibile i nomi dei santi e i riferimenti religiosi. Nella realtà dei fatti, questa volontà così scristianizzante (almeno in quanto a toponomastica) non sembra proprio esservi. Se si prende ad esempio i 18 Comuni inclusi nello stesso Regio Decreto che interessò anche il nostro, non solo non scomparvero i riferimenti ai Santi (eccetto il nostro caso in cui comunque della Santa mantenemmo il nome) ma addirittura ne vennero inseriti tre ex-novo ( i sardi Quarto e Settimo divennero rispettivamente Quarto S.Elena e Settimo San Pietro, e Monticello in Terra di Lavoro divenne Monte San Vito e poi Monte San Biagio).
Consiglio Comunale del 24 agosto 1862
Davanti a questi cittadini amministratori: Assessori Giuseppe Marini Pauloni e Paolino Tomassini Pongelli; Consiglieri Pietro Buscalferri, Raffaele Dialti, Benedetto Brasca Bartocci, Antonio Censi, Pietro Vannucci, Giuseppe Cappanna, Carlo Mancini e Giuseppe Felicioli (all’appuntamento mancarono Venanzo Carucci e Giovan Paolo Censi assenti e Antonio Bartocci dimissionario) il Sindaco Agostino Giovagnoli parlò di continui disguidi postali a causa della presenza “d’altro Comune di medesimo nome nell’Umbria” (si tratta di Santa Anatolia, nei pressi di Spoleto, che nell’occasione aggiunse di Narco,) portando ad esempio l’ultimo in ordine di tempo (l’otto di luglio appena trascorso) che aveva costretto il Comune ad una faticosa giustificazione con la Regia Prefettura per non aver risposto ad una importante missiva mai pervenuta proprio perché recapitata altrove.
La Prefettura, appena il 16 luglio, nel riconoscere che l’equivoco sui nomi era fenomeno consueto, aveva riportato pari pari il contenuto della Circolare 12783 del 30 giugno emanata, a Torino Capitale del Regno, dal Ministero dell’Interno. Questo il succo: poiché “ l’identità di nome che si riscontra in parecchi comuni è bene spesso cagione d’equivoci e d’imbarazzi pei privati e per le pubbliche Amministrazioni. A togliere tale inconveniente basterebbe che le rappresentanze municipali di tali Comuni deliberassero, se non di cangiare affatto l’attuale loro denominazione, almeno di farvi qualche aggiunta che si potrebbe desumere dalla speciale situazione di ciascun Comune secondo che si troverà al Monte, o al Piano, al Mare o sovra un Fiume, o Torrente” e “trovandosi questo Comune nel caso sopraccennato”, “trova opportuno che il Consiglio Comunale nella prima seduta che avrà a tenere per altri oggetti deliberi sull’argomento variando la denominazione del Comune, o facendovi qualche aggiunta che possa in avvenire togliere ogni pericolo di equivoco”.
Si sarebbe potuto limitare il tutto a una semplice aggiunta, un riferimento alla regione, alla provincia, al fiume, come generalmente fecero altrove. Da noi si volle, credo con un sincera volontà di recupero di una identità storica, una ricerca di radici antiche e fascinose. Il Feliciangeli, esimio studioso, nei primi anni del ‘900, ne mise in discussione i presupposti, bollandola come “una interpretazione pseudo-erudita“. Un po’ come dire un vaneggiamento di chi se la tira per nobilitarsi un po’ vantando improbabili e fantasiose antiche ascendenze. Può anche darsi, ma tanto fu.
Acquacotta
Era stato il Reverendo Camillo Acquacotta, Arciprete di Matelica, nella storia della sua città (‘Memorie di Matelica‘, 1838), citando la confinante Terra di Santa Anatolia, ad aver azzardato una ipotesi circa il suo antico nome.
Da lì colsero lo spunto gli amministratori e decisero, alla unanimità, proprio sulla base della “concettosa opinione che venisse la medesima anticamente chiamata Esa…”, che, da allora in poi, saremmo diventati di…
Esanatoglia…
Tempi rapidi. Quattro giorni dopo partiva per la Prefettura la delibera approvata e la richiesta ufficiale di cambiamento e, tempo due settimane, c’era già il Regio Decreto di approvazione. Intorno al 10 ottobre la notizia fu ufficiale.
… o Esanatolia ?
Sconcerto alla lettura dell’estratto del Decreto che autorizzava il Comune di Sant’Anatolia “a cangiare l’attuale suo nome in quello di Esanatolia”.
Proprio così: “Esanatolia”, e nell’errore cadde anche la Regia Prefettura di Macerata che, nel trasmetterlo, indirizzò appunto “Al Sindaco di Esanatolia”. Ma il Decreto originale riportava la dicitura corretta, quella deliberata dal Consiglio Comunale; si trattava soltanto di un mero errore di trascrizione nell’estratto e venne ignorato. Peggio andò alla non lontana Massaccio che volle chiamarsi Cupramontana in onore della Dea picena Cupra e si ritrovò, ma proprio nel Decreto originale, rinominata Capramontana. Questo caso, ovviamente, necessitò invece di un nuovo Decreto correttivo.
Sicché, per noi, il Regio Decreto n.825 che Vittorio Emanuele II “per Grazia di Dio e per volontà della Nazione Re d’Italia” firmò il 14 settembre 1862, con controfirma di Urbano Rattazzi, Ministro dell’Interno, al punto 13, recò il nome esatto, quello che ancora oggi scandiamo: Esanatoglia. Per noi, Esanatòja.
Molto interessante bravo Pino
Grazie.
Interessantissimo!!! Quanti particolari che non conoscevo… Quindi l’ideazione del nome non fu propriamente di Acquacotta…