E’ un termine diffuso in particolare nell’alto maceratese, nel fermano e nell’ascolano. Il significato lo descrive bene nel ‘suo’ dialetto Don Amedeo Bricchi: “è, un termine generico nel dialetto matelicese e indica qualsiasi cosa mal ridotta, un attrezzo che non serve più ed è d’impiccio. In senso figurato si dice anche di una persona mal ridotta, brutta, che dà fastidio e non è più utile a sé e agli altri “.[1]
Si ferma però Bricchi affermando di non conoscere l’origine di questa parola.
Eppure è proprio in quell’attrezzo la chiave per spiegarne l’etimologia e il significato che il dialetto ha attribuito al termine. Un attrezzo, un arnese.
Il significato che lo ha rivestito è l’immagine plastica del modo di dire “ridotto male in arnese” con cui in modo compassato marchiamo chi, in senso fisico ma anche come estensione metaforica in senso comportamentale, ci appare piuttosto malconcio, malfunzionante, dimesso, prostrato.
Il retrabbio, ovvero lu retrabbiu è infatti proprio un arnese utilizzato in particolare nella nobile e indispensabile arte dei fornai (detti anche ‘panifàculi’), o dei fabbri, o anche dei vasari, di tutti i mestieri o le ‘arti’ insomma che avevano bisogno del fuoco e di governare e spandere le sue braci. Quando nel novembre del 1608 il matelicese Graniero Gattovecchio prende in gestione il Forno della Comunità, nell’inventario di tutta la attrezzatura presente tra tavole, stamigne e corvelli, risalta la presenza dell’immancabile “ritrabbio di ferro”, che chissà se lo fosse di nome e di fatto, visto che tra le varie attrezzature ora ne risulta una “da riformare“, ora una “guasta“, ora un’altra addirittura “tutta guasta“.
Ancora più avanti nel tempo, nell’ennesimo cambio di gestione a favore di un altro forestiere (era un mestiere che evidentemente non era congeniale ai santanatogliesi di quel periodo) nel giorno di ferragosto del 1624 nello ”Inventario delle robbe del forno consignate ad Antonino Morlacha da Castra mondo fornaro nella Terra di Santa Natoglia et nel forno della Magnifica Comunità”, salvo poche eccezioni, compaiono gli stessi arredi del 1608 e arnesi tra cui “il retrabio di ferro” che chissà se fosse lo stesso di allora, perché dopo più di 15 anni di onorato servizio sarà stato ancor più “retrabbiu” che mai…
Perché questo attrezzo sia diventato sinonimo di malfunzionamento e abbia assunto tutte le valenze negative che gli vengono comunemente associate, è facilmente intuibile: l’uso a cui era destinato già non richiedeva una fattura particolarmente accurata, dato che a smuover la brace non occorrevano sagome complesse o particolari accorgimenti funzionali. Insomma un attrezzo più che semplice, risibile, secondario. Poi il contatto con le alte temperature faceva sì che si deformasse facilmente. Quindi forma dimessa, prevalentemente acciaccaticcio, funzione non propriamente nobile… da qui a identificarlo nell’immagine stessa della sgangheratezza, della inconsistenza funzionale, il passo viene da sé. Verrebbe da pensare che la condizione di retrabbiu sia comunque in divenire, perché all’inizio è pur sempre un attrezzo nuovo e quindi non è un retrabbiu in senso figurato, lo diventa poi con l’uso. Come dire quindi che retrabbi (in senso figurato) si diventa. Ma ritengo che proprio la funzione a cui è destinato l’attrezzo, lo ponga inevitabilmente nelle condizioni di diventarlo (e anche in un brevissimo lasso di tempo). Come dire allora (prendendo in prestito il senso reale e aggiungendovi il senso figurato) che se nasci retrabbiu non poli che diventà un retrabbiu… Una sorta di ipotesi deterministica…
C’è da perdersi nel gioco di parole e di senso… Finiamola qui.
L’etimologia che più convince ci porta sicuramente ai gesti legati alla sua funzione; il re-trahere che significa, tra l’altro, “tenere lontano, non mettere fuori” quindi, per estensione, anche ritirato, messo da parte, retratto (tratto indietro).
Come attrezzo, è in uso ancora oggi e lo chiamiamo “spandibrace” (o “spargibrace“, o anche “pala per brace“), senza concedergli però alcuna valenza metaforica, per cui potrebbe anche tutto accartocciarsi e rovinarsi, ma non diremmo mai a un malridotto “sei diventato uno spandibrace!” (nemmeno dialettizzandolo in “ti si ‘ffattu ‘nu spannilùte!”).
Non c’è più la forza evocatrice originaria; non c’è più il riferimento a un elemento come il fuoco che accomunava non solo importanti “arti” ma un po’ tutti, perché tutti (o quasi) avevano il fuoco in casa; viene a mancare, perché no, anche l’assonanza (aspetto importante negli usi metaforici del linguaggio) con un altro termine di valenza negativa, anch’esso assai diffuso, come “stabbiu” (letame), che inconsapevolmente accostato induce a pronunciare “retrabbiu” con una smorfia del viso e una tonalità che ne aggravano la carica spregiativa. Per non dire poi di ‘retra-‘ , che quasi a mo’ di prefisso, non si può non accomunare idealmente a retro e che perciò rimanda direttamente, in senso figurato, verso una condizione peggiore. Ci appare quindi ‘retrabbiu‘ una parola con una carica fortemente espressiva a tutto tondo, con una vocazione descrittiva che forse spiega il perché, in senso figurato, ancora non sia del tutto scomparsa.
Scomparso è invece lu retrabbiu attrezzo, seppur solo nominalmente; ma nonostante anche il fuoco sia ormai cambiato, l’attrezzo “pe’ spanne o pijià ‘ssu le lute” non è ancora stato attualizzato in un “embers shovel” o qualcosa del genere, e questo non è poco…
Pertanto, esistendo ancora a quanto risulta, i malconci, i malridotti, quelli che si comportano come vecchi arnesi acciaccati e arrugginiti, poco reattivi, brutti ma di una bruttezza non tanto fisica quanto di portamento e di comportamento, quasi come se in loro funzionasse male “l’elemento umano”, lasciamo il moderno “spandibrace” a prendersi cura delle nostre grigliate e, memori della potenza significante dell’antico attrezzo, concediamoci il piacere di continuare, condividendone il senso, a chiamare “retrabbiu” chi (o ciò che), secondo noi, “retrabbiu” lo è.
[1] Amedeo BRICCHI, Matelica. I suoi abitanti. Il suo dialetto, Matelica, 1984
Complimenti! Analisi accuratissima che apre a un mondo insospettabile . La ricchezza delle fonti e il tuo stile godibilissimo rendono onore e dignità a una parola desueta , nota a pochi e , presumo , come noi in su con gli anni .
Grazie. A volte viene da pensare ad un inutile esercizio di nostalgia.
Ma rielaborando con il nostro pensiero, ciò che abbiamo ricevuto dal passato, cerchiamo di mettere a frutto l’ansia di conoscenza. Anche il recupero di una parola “desueta” può essere uno spiraglio per entrare nel senso della storia, della vita.
Complimenti, caro Pino, per l’accuratezza delle ricerche e per l’acribia filologica degna dei migliori storici e linguisti. Sono certo che ci delizierai ancora e arricchirai ancor di più la nostra memoria storica con altri ricordi, forse ormai sopiti, del nostro meraviglioso passato.Grazie.
Ti ringrazio di tanta ‘grazia’, troppa…
Concordo sul “nostro meraviglioso passato”.
Ho pensato quel retrabbio di….è essendo parola non usata è sentita da anni la cercata su google e ho trovato il significato ben spiegato e corrispondente a quello che avevo pensato di….
Non mi è molto chiaro…