| la Storia, le vite

19 giugno 1955

Oggi, in pompa magna, si inaugura lu Monumentu e Esanatoglia è invasa di gente.

Tra la folla, accalcata davanti alla Porta, all’Incrocio e lungo via Cesare Battisti, c’è anche Lao.

In una delle rare fotografie che ci restano della giornata, qualcuno sostiene possa riconoscersi in quella figura al centro, còlta nell’atto di aggiustarsi l’elmetto da fante del 15-18 che, ricordano in più d’uno, sfoggiò quel giorno. Ma non v’è certezza che sia lui.

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Ora che la banda fa salire le note su cui la scolaresca attacca con “il Ppiave mormorrava calmo e pplacido al passaggioooo…”, si volge verso i combattenti e reduci più anziani disposti ai lati del Monumento;  ce ne sono che hanno poco più di cinquant’anni, perché erano partiti giovanissimi, e altri vecchi quanto lui. Scorre lo sguardo su quella schiera Lao, e s’accorge che quasi per tutti loro conserva un ricordo, un particolare, un racconto che li lega alla Grande Guerra.

E la ricorda, quella Guerra, che lui ha sempre sentito con la stessa intensità di un soldato al fronte, anzi, a volte gli sembra- va d’averla vissuta più di tanti che avevano indossato la divisa, d’averne patito le pesanti conseguenze, anche se per interposta persona. Era così: aveva ancora la mente ingombra di ricordi, nomi di luoghi, di battaglie, storie di uomini, quasi fosse stata la sua Guerra.

Pur non essendosi mai allontanato dalla terra in cui era nato, avrebbe potuto raccontare particolari che a volte anche molti dei diretti interessati avevano ormai rimosso.

Ripensa ai tanti che aveva conosciuto e che vide partire per il fronte e mai più tornare.

Torna allora lui a quei nomi, incisi nella semplice lapide collocata sulla facciata di Palazzo Silvani, nella piazza di Santa Maria. Quella lapide che ormai appariva scarna, immiserita dalla maestosità del nuovo Monumento.

La lapide che Lao considerava come il riassunto della sua guerra.

Avrebbe voluto raccontare di quei tempi ma non ne ha avuto modo, e forse neanche l’ardire; quale credibilità per una ‘Storia secondo Lao’ per il racconto di uno che ne aveva ‘sparate’ tante in vita sua ?

Ma, com’è nella vita d’ogni uomo, ha lasciato tracce Lao, segni del suo passaggio. In particolare di quel periodo, quando milioni di uomini furono trascinati in quell’abisso che fu la Prima Guerra Mondiale.  Documenti, ricordi, racconti. Tracce, le sue, che meritano  di essere raccolte, riordinate ed elaborate.  Filo sottile, lo stame di una vita che intreccia il vero e l’improbabile, la parola scritta e il pensiero inespresso.

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Ricordando a noi stessi, davanti alle pretese di rettitudine e di linearità delle nostre vite, che spesso è nelle vite storte che troviamo un lampo di luce, una scossa.

E quella di Lao, storta quanto il suo corpo, può essere occasione per raccontare la Grande Guerra, la sua e quella degli esanatogliesi e ricordare, in particolare, quelli che non tornarono.

E allora, quel giorno del ’55, mesto e festoso, immaginiamo Lao:

tornare col ricordo a quarant’anni indietro, ché tanti nel frattempo n’erano trascorsi, con sopra un’altra guerra;

temere, come sempre, il rischio di non essere creduto;

abbandonarsi al suono della tromba solista che con ‘Il Silenzio’ vela il brusìo della folla d’intorno;

e pensare infine che, fosse per lui, così si andrebbe a cominciare:

a Esanatoglia, e non esagero, in quell’anno eravamo 7251. Anzi, 7250 più uno……

Lao

Nel paese di cui si parla, al primo di gennaio di quell’anno cruciale che fu il 1914, all’anagrafe del comune si contarono gli abitanti in numero di 2751 e non 7251 come avrebbe detto, invertendo furbescamente le prime due cifre, l’incorreggibile Lao.

Esagerazione a parte, accogliamo però la scomposizione che lui stesso avrebbe proposto: quindi, 2750 più uno, erano gli esanatogliesi, poiché come ebbe più volte a precisare, si riteneva proprio lui quell’uno, quell’avanzo.

Si sentiva, nei fatti, diverso. Tra i disgraziati, il più disgraziato. Al tempo, come lo era stato per i tempi passati, la vita era ancora difficile per tanti, e tanti potevano aspirare ad attribuirsi quella supremazia della sofferenza.

Ma chiunque si fosse proposto di rivendicarla, per dolersene o, perché no, farsene vanto, a fronte di qualche personale stato di disgrazia – da una difficoltà economica a una pena d’amore, da una prostata gonfia a una gravidanza perigliosa – sarebbe stato sopraffatto da Lao con un perentorio e tacitante “e ddill’a ‘mme!..” che solitamente, a meno che non urtasse qualche particolare suscettibilità, strappava una risata bonaria, un quieto pensiero, che era in fondo ciò che lui cercava.

E Stanislao Cambriani, per tutti e per sempre Lao, figlio di Giosafat e Angela Spitoni, nato nel settembre del 1876 al civico 38 del Corso ma cresciuto e vissuto su la Rocca, era proprio diverso, anche diverso dai diversi, e all’epoca ve n’erano in avanzo: struppi di diverso grado per disparati sciancamenti, rintorcimenti, moncature e altre dolenti marchiature di morbi al tempo non ancora curabili.

E poi, in consistente numero, vittime di demenza e altri disturbi della mente e dello spirito, definite nelle più svariate sfumature: come sempliciòtti, mattarélli, storzùni, pasci, matti furiusi e altro ancora. Tanti segnàti – dalla mano divina, s’intendeva – a cui era d’uopo attribuire impietosamente furbesche e ingannevoli mae- strìe e una congenita malignità da cui tutelarsi, come sentenziava l’adagio popolare “Disse Cristu all’Apostoli sua: Dio ve scampi da li segnàti mia”.

Ma Lao era un animo buono, ‘npézzu de , e non era certo facile attribuirgli questo luogo comune.

Il suo segno era una corpo martoriato da un evidente rachitismo che lo storceva deformandone la postura e facendogli assumere strane posizioni, come di chi resta assalito da pruriti alla schiena.

Nascondeva lo sconclusionato disordine del suo corpo in un abbondante ferraiolo (d’estate era una mantella leggera) che faceva abilmente vorticare dandosi così una dimensione incerta, un volume indefinito e semovente.

La malattia lo aveva colto nella prima infanzia e con quel nomignolo che contraeva il suo imponente nome e suonava quasi fosse un lamento, crebbe, come spesso capita nei casi in cui la sofferenza sovrasta tutto il resto, in un mondo suo, separato, dove s’insinuò, complice una certa qual stravaganza tipica dell’intera sua famiglia, un concetto alterato della realtà, una straordinaria capacità visionaria e una altrettanto straordinaria propensione all’iperbole. Insomma, per semplificare, uno che le sparava grosse.

Forse riflettendo su di sé e le sue pene, maturò la convinzione che la vita stessa, comunque la si guardasse, non fosse altro che uno sproposito, un’esagerazione.

Questo fu il suo vero e fondamentale segno, quello distintivo, quello per cui ancora oggi qualcuno lo ricorda, essendosi egli stesso trasformato nel tempo e nella memoria paesana in una sorta di luogo comune, la figura emblematica dell’esagerazione, a volte dello sproloquio.

Una specie di folletto, un mazzamuréllu, una parazzula anche se queste definizioni suggeriscono un impeto in movimento, cosa in cui Lao, a motivo della sua sciancatura, non eccelleva certo.

Era sì, nonostante i suoi limiti, un pellegrino instancabile e senza meta, ma con fatica trascinava quel corpo, e in realtà, gli era più congeniale la quiete o almeno la lentezza.

Aveva però, questa sua particolare inclinazione, il potere di animarlo e di imprimergli un che di frenetico, nonostante il movimento lento.

Era di fantasia il movimento di Lao; lasciava correre l’immaginazione inducendo gli altri, se disposti ad assecondarne lo stimolo, a prender parte nel suo mondo smisurato.

Lo si poteva allora seguire in uno dei suoi voli dagli scogli di San Cataldo, quando raccontava di quei lanci nel vuoto con una specie di sottanone di cui stringeva saldamente i lembi, e delle sue dolci planate, grazie a quell’improvvisato paracadute, vicino al Camposanto.

Oppure quando, sempre da San Cataldo, appollaiato sul costone sopra la chiesa, staccava sassi dalle balze rocciose e li tirava in direzione del paese, e poi, nel racconto, scendeva coi suoi ritmi a valle in tempo per sentire il rumore di quei sassi che cadevano sui tetti delle case.

Si poteva scorrere con lui lungo il corso dell’Esino quando si faceva trasportare dalla corrente ritto sugli zoccoli che, nel suo racconto, gli garantivano, diceva, lo stesso galleggiamento di una zattera.

E se si accettava l’idea che tutto è relativo, si poteva anche ascoltarlo e un po’ farsi rapire dalle infinite tràppule sparate con candore a infrangere i concetti di tempo e di spazio, ad oltrepassare i ragionevoli limiti di ogni dimensione. Le fave del suo orto erano talmente lunghe che per essere contenute in un canestro dovevano essere spezzate in sette parti.   Si parlava di funghi e dal paese lui li vedeva crescere sulla cima di Gemmo e chiedeva silenzio per  meglio ascoltare quello che solo lui percepiva dalla lontana montagna, il fruscìo dell’erba smossa dallo spuntare di porcini e prataioli.

Di qualsiasi argomento s’impicciasse, in qualsiasi storia rimanesse impigliato,   sfoderava qualche perla dell’arte che aveva sviluppato; che non era però scempiaggine gratuita, né tronfia spacconaggine, ma senso del paradosso e calcolata arguzia.

Ingannava la realtà delle cose con il suo eloquio che era una incessante ”scantafavola e che spesso sciorinava” addirittura in rima.

Assai lontana è la figura del classico zimbello, dello scemo che sembra debba appartenere a ogni villaggio.

La gente con lui si divertiva, certo, anche con quella perfida bonomia con cui ci si accosta ai diversi; e lui, a parere di chi lo conobbe bene, mostrava di divertirsi con la gente, spesso con quell’ironia con cui i diversi affrontano il mondo che li marchia.

Ma Lao non era solo questo. Ancora più diverso. Sapeva, in- fatti, leggere e scrivere.   Di più ancora:  padroneggiava la lingua, scritta e parlata, con una certa disinvoltura, e questo era un fondamentale complemento del suo mondo visionario.  Forte di questo suo talento, nei suoi scritti – nel poco che purtroppo resta, cioè istanze varie, petizioni sui più disparati argomenti, accorate suppliche, brandelli di un opera che non possiamo che immaginare vasta – dimostrava proprietà di linguaggio e decorosa abilità compositiva. Anche la semplice richiesta di un sussidio era pretesto per esternare questa dote che all’epoca era piuttosto inusuale e riservata a pochi.  A spanne, quattro su dieci erano analfabeti totali. Degli altri sei, quattro almeno leggevano a stento e a stento scrivevano.

Costretto fin da bambino a combattere la realtà che gli era ostile, si abbandonò alla lettura e ad una delle sue incontrollabili conseguenze: l’immaginazione.

[………….]

“La Guerra di Lao” sarà pubblicata per intero divisa in 4 parti

8 Replies to “19 giugno 1955”

  1. Rosa Maria ha detto:

    Mi è proprio piaciuto il tuo articolo.Hai descritto questa persona come me lo descriveva mia madre, perché abitavano vicino di casa, alla Rocca. Lei era una bambina ma se lo ricordava benissimo.Grazie Pino. Mentre leggevo tutti i dettagli sulla sua forma fisica cercavo di immagginarmelo poverino deve aver sofferto molto Mia mamma mi raccontava che era molto orgoglioso, acculturato e buono.

  2. Onorina Pocognoli ha detto:

    Sei stato veramente bravo “io me lo raffiguravo diversamente basso e grasso”mi è piaciuta molta la storia”complimenti,

  3. Tiziana ha detto:

    Grazie Pino,
    che piacere leggere i tuoi racconti…..

  4. Anonimo ha detto:

    Sempre sentino nominare …immaginavo una persona fisicamente normale un uomo sempliciotto invece grazie al tuo racconto ora mi sembra quasi di vederlo .

  5. Lacchè Rita ha detto:

    Sempre un piacere leggere le tue storie. Conoscevo Lao dai racconti di mio padre però la descrizione del personaggio non, il fisico non lo immaginavo. Grazie mi è piaciuto molto

  6. Simone Bottaccio ha detto:

    Quando ero piccolo, veniva spesso citato questo Lao. Pensavo fosse un personaggio inventato, che diceva cose impossibili cui nessuno credeva, ma di cui tutti ridevano. Poi ho letto con grande interesse il libro di Pino. Devo dire che era proprio una gran bella persona, che si spese per la sua comunità in un modo non banale, specialmente se consideriamo i tempi in cui viveva.

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